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martedì 08 ottobre 2024
 
 

Don Colmegna, a capo della fondazione “Casa della carita”. «Superare la logica dei campi nomadi»

30/03/2016  «I rom si possono integrare, a Milano lo abbiamo già fatto per decine di loro. A cominciare dalle donne e dai bambini».

Quando a Milano c’è un’emergenza sociale, la Casa della Carità è spesso presente. Ultimo esempio, la disponibilità a ospitare numerose famiglie rom accampate sotto un cavalcavia. Don Virginio Colmegna, presidente della Fondazione Casa della Carità, rappresenta bene la caratteristica dei loro interventi: stare dove esistono emarginazione e degrado, occuparsene al meglio per creare condizioni di vita normale, riflettere sull’esperienza con tutta la cultura di un “pretaccio” (l’espressione è di Candido Cannavò) che è anche un intellettuale di vaglia.

Qual è l’atteggiamento degli italiani verso gli immigrati?

«Prevale la paura. Si è radicalizzata un’immagine degli stranieri dagli aspetti soprattutto negativi, con l’associazione “immigrato uguale clandestinità uguale criminalità”, o comunque pericolo sociale. L’accoglienza è una dimensione quasi sotterranea, che si fa in termini di testimonianza e che non crea quella cultura della normalità che noi auspichiamo, perché è legata ad aspetti di legalità e trasparenza. L’immigrato viene visto da una parte come pericoloso, dall’altra come povero da aiutare; invece qui c’è una presenza che va affrontata con risposte, perché il fenomeno migratorio è strutturale. Permane di continuo uno stato ansioso di protesta, che può essere bacino di consenso elettorale, ma che non risolve i problemi».

E al Nord? Ci sono segnali positivi per l’integrazione?

«Certamente il Nord ha fame di lavoro di immigrati, nelle case ma anche nei cantieri edili, nelle imprese di pulizie. La vera cultura d’integrazione viene se pure gli imprenditori dichiarano esplicitamente di avere bisogno delle forze dell’immigrazione e chiedono anch’essi una dimensione di serenità rispetto al problema migratorio, con conseguenze di maggiore cultura sociale e maggiore sviluppo. D’altro canto c’è una solidarietà che non è fatta solo dal volontariato, ma di esempi di fraternità e comunione che esistono nelle nostre culture, che sono culture solidali».

Uno dei gruppi più rifiutati sono i rom. Come operate con loro?

«Diciamo subito che la logica dei campi nomadi va superata. Creando piccoli gruppi di 80, 100 persone che io ho chiamato villaggi solidali. Noi in questo modo abbiamo ormai inserito più di 80 famiglie in case normali. Abbiamo ancora un villaggio solidale con 85 persone al Parco Lambro, in prefabbricati dove stanno per uno o due anni. L’inserimento non riesce nel 20 per cento dei casi, con chi non accetta un percorso di legalità, socialità, impegno serio all’autonomia. Avviamo gli uomini al lavoro, però la grande vittoria è quando le donne cominciano a lavorare e si assumono il problema dell’educazione e dello studio dei figli. Donne e bambini sono la strada vera per affrontare le loro tradizioni, anche quelle da superare».

Quali sono le posizioni comuni della Chiesa sugli immigrati?

«Mi sembrano segnate da un senso dell’accoglienza regolata. L’accoglienza è una sua dimensione costitutiva, perché il Vangelo pone imperativi per cui ogni persona ha valore e dignità. Per gli immigrati e per tutti, la Chiesa è in prima fila dove c’è bisogno di restituire dignità, acqua, pane, diritti, solidarietà. D’altra parte c’è anche molta competenza: questo tipo di problema non è stato affrontato con un generico buonismo che ci viene attribuito, ma con rigore e professionalità».

 
 
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