Quando a Milano c’è un’emergenza
sociale, la Casa della Carità è spesso
presente. Ultimo esempio, la disponibilità
a ospitare numerose famiglie rom
accampate sotto un cavalcavia. Don Virginio
Colmegna, presidente della Fondazione
Casa della Carità, rappresenta
bene la caratteristica dei loro interventi:
stare dove esistono emarginazione e
degrado, occuparsene al meglio per
creare condizioni di vita normale, riflettere
sull’esperienza con tutta la cultura
di un “pretaccio” (l’espressione è di Candido
Cannavò) che è anche un intellettuale
di vaglia.
Qual è l’atteggiamento degli italiani
verso gli immigrati?
«Prevale la paura. Si è radicalizzata
un’immagine degli stranieri dagli aspetti
soprattutto negativi, con l’associazione
“immigrato uguale clandestinità
uguale criminalità”, o comunque pericolo
sociale. L’accoglienza è una dimensione quasi sotterranea, che si fa in termini
di testimonianza e che non crea
quella cultura della normalità che noi
auspichiamo, perché è legata ad aspetti
di legalità e trasparenza. L’immigrato
viene visto da una parte come pericoloso,
dall’altra come povero da aiutare; invece
qui c’è una presenza che va affrontata
con risposte, perché il fenomeno
migratorio è strutturale. Permane di
continuo uno stato ansioso di protesta,
che può essere bacino di consenso elettorale,
ma che non risolve i problemi».
E al Nord? Ci sono segnali positivi
per l’integrazione?
«Certamente il Nord ha fame di lavoro
di immigrati, nelle case ma anche nei
cantieri edili, nelle imprese di pulizie.
La vera cultura d’integrazione viene se
pure gli imprenditori dichiarano esplicitamente
di avere bisogno delle forze
dell’immigrazione e chiedono anch’essi
una dimensione di serenità rispetto
al problema migratorio, con conseguenze
di maggiore cultura sociale e maggiore
sviluppo. D’altro canto c’è una solidarietà
che non è fatta solo dal volontariato,
ma di esempi di fraternità e comunione
che esistono nelle nostre culture,
che sono culture solidali».
Uno dei gruppi più rifiutati sono i
rom. Come operate con loro?
«Diciamo subito che la logica dei campi
nomadi va superata. Creando piccoli
gruppi di 80, 100 persone che io ho
chiamato villaggi solidali. Noi in questo
modo abbiamo ormai inserito più di 80
famiglie in case normali. Abbiamo ancora
un villaggio solidale con 85 persone
al Parco Lambro, in prefabbricati dove
stanno per uno o due anni. L’inserimento
non riesce nel 20 per cento dei casi,
con chi non accetta un percorso di legalità,
socialità, impegno serio all’autonomia.
Avviamo gli uomini al lavoro, però
la grande vittoria è quando le donne cominciano
a lavorare e si assumono il
problema dell’educazione e dello studio
dei figli. Donne e bambini sono la
strada vera per affrontare le loro tradizioni,
anche quelle da superare».
Quali sono le posizioni comuni della
Chiesa sugli immigrati?
«Mi sembrano segnate da un senso
dell’accoglienza regolata. L’accoglienza
è una sua dimensione costitutiva, perché
il Vangelo pone imperativi per cui
ogni persona ha valore e dignità. Per gli
immigrati e per tutti, la Chiesa è in prima
fila dove c’è bisogno di restituire dignità,
acqua, pane, diritti, solidarietà.
D’altra parte c’è anche molta competenza:
questo tipo di problema non è stato
affrontato con un generico buonismo
che ci viene attribuito, ma con rigore e
professionalità».