Mi scuserete se, per una volta, vi parlerò delle mie emozioni. Ma giovedì notte,dopo una lunga serata passata con gli operatori e gli ospiti della Casa della carità per trovare una sistemazione a 98 profughi accampati in Stazione centrale, tornando a casa avevo un groppo alla gola. Pensavo di essere abituato dopo le tante emergenze vissute in questi anni. Ma la fila di donne e di mamme con figli piccolissimi, di uomini dai volti distrutti dalla stanchezza scaricati a mezzanotte da due autobus dell’Atm, di bimbi aggrappati alla sottana di mamma, confesso, mi ha profondamente colpito.
Come uomo, come prete, come operatore sociale.
Ho avvertito un senso del limite e dell’impotenza della politica nel risolvere un così grande problema che ci interroga tutti, come uomini, come donne, come civiltà. Ho spesso sottolineato come la Politica, quella con la P maiuscola, quella che tiene banco sulle prime pagine dei giornali con le sue polemiche e le sue promesse, non sta facendo la sua parte né in Italia né in Europa sulle tematiche dell’immigrazione. Continuerò a dirlo, a denunciarlo, a sollecitare tutti a farlo.
Ma qui, oggi, voglio parlare di quella voglia di piangere che giovedì notte mi ha stretto la gola. Stare nel mezzo, mobilitarsi per dare un aiuto immediato a chi ne ha bisogno senza se e senza ma, senza chiedere ma dando, è ciò che cerco di fare in ogni occasione da anni. Stare nel mezzo porta a confrontarsi con gli altri, a conoscere storie, a guardare negli occhi il tuo prossimo. Porta a condividere la gioia del bimbo che, per consolarsi, chiede una caramella e trova subito chi gliela dà, porta a condividere il dolore di chi non ha più occhi per piangere.
Porta a interrogarti sul fatto che quelle emergenze urlate sui giornali e in tv, gli allarmi scabbia, le paure sollevate apposta per sollecitare la più bieca reazione della gente, quando le incontri, le guardi, le tocchi con mano, vedi che sono persone e non numeri, persone come te e non pacchi, uomini e donne che si portano dentro un dramma che noi solo in parte possiamo immaginare.
Tante persone ho incontrato, ma non riesco ad essere indifferente. Anzi, guardando quei volti e ascoltando quelle storie, mi sono interrogato anche nella mia fede, nel mio modo di testimoniarla, sapendo che non risolve il problema.Mi sono sentito smosso nelle viscere, tradito dalla commozione. Incapace di non cedere a un moto spontaneo di rabbia di fronte al menefreghismo di quella parte di opinione pubblica più incattivita che vive con insofferenza i disagi causati alla città dell’Expo da queste decine di centinaia di persone che per fuggire la guerra ha scelto di passare da Milano intasandone la stazione.So bene quanto sia complesso affrontare un’emergenza di questa natura dal punto di vista amministrativo, non trattandosi solo di una questione economica.
Ma giovedì notte, tornando a casa, ho sentito una gran voglia di raccogliere il profondo sentimento di commozione che avevo dentro ricordando gli inviti di Papa Francesco a non perdere il valore delle passioni e dei sentimenti, della necessità di rompere la scorza dura dell’indifferenza. Scusatemi se ho voluto condividere qui con voi queste mie sensazioni. È un modo per dire: non stiamo zitti, scuotiamoci!