Per chi gli è cresciuto attorno, al quartiere Ticinello di Pavia, don Enzo Boschetti era il prete in maglione che accoglieva i ragazzi disastrati e celebrava la messa in uno scantinato. Nel 2020 è stato proclamato Venerabile e a papa Francesco, che ne ha firmato il decreto, sarebbe certo piaciuto questo prete che raccattava gli scartati ai margini delle strade e sotto i ponti, prima che l’eroina mangiasse loro vita e anima. Ora la sua storia è in un libro, Le confessioni di don Enzo Boschetti, scritto per San Paolo da Enrico Impalà. La presentazione, fruibile anche sul sito della Casa del Giovane, è il 12 febbraio alle 18,15 a Pavia, al Salone terzo millennio via Lomonaco 43, con la partecipazione del vescovo Monsignor Corrado Sanguineti.
Abbiamo chiesto a don Franco Tassone che 28 anni fa, freschissimo di talare, alla morte di don Enzo si è fatto carico per primo della Comunità rimasta orfana di raccontarci chi era e com’era don Boschetti visto da vicino.
«Io l’ho incontrato nel 1981, dopo la maturità, sono andato a fare il servizio civile alla Casa del giovane che esisteva da dieci anni: facevamo gli incontri nello scantinato che di domenica diventava una chiesa, di notte il dormitorio per i ragazzi che don Enzo accoglieva: lo chiamavamo oratorio. I ragazzi che entravano lì avevano una prima mutazione antropologica: da ex carcerati ex tossicodipendenti diventavano “i ragazzi di don Enzo”. Saranno 50 anni dalla nascita tra pochi mesi».
È vero che ancora oggi, 28 anni dopo la sua morte, la città e il quartiere chiamano così gli ospiti della comunità che nel frattempo ha trovato muri meno poveri e traslocato di qualche centinaio di metri?
«Sì, tutti sapevano allora che al sabato mattina i ragazzi giravano per la città con dei pulmini scalcinati raccogliendo la carta che, venduta, sarebbe servita a dare sostentamento per le loro necessità educative. Lo sapevano, per passaparola, tutti: il panettiere, il macellaio... Si arrivava a sera tante volte chiedendosi se ci sarebbe stato il necessario. E sempre arrivava la Provvidenza. Don Enzo ha avuto un’esperienza carmelitana per sette anni poi ha voluto diventare prete, si è formato come vocazione adulta: un sacerdote con dentro la passione per gli ultimi. L’ha rivelata a Chignolo, un paese della provincia, e poi a Pavia nello scantinato, con il Parroco del Ss. Salvatore di allora, don Giuseppe Ubicini, che lo sosteneva quando qualcuno nel quartiere si lamentava. A cinquant’anni di distanza possiamo dire che lì è nata la piccola opera San Giuseppe, attorno a sé don Enzo ha aggregato professionisti, una suora che gli ha dato le prime diecimila lire per affittare la prima casa, dove mettere i ragazzi, con relativo corredo di problemi: via vai di persone considerate poco raccomandabili e don Enzo che li difendeva nelle omelie. Siamo al centro di un incrocio di anniversari: i 50 anni della comunità, i 120 della chiesa parrocchiale, i vent’anni della consacrazione del Sacro Cuore, la chiesa “nuova” che ha sostituito finalmente il seminterrato che il quartiere chiamava confidenzialmente il garage».
Accanto alla storia di don Enzo nel libro ci sono pagine di diario, che cosa raccontano del don Enzo che ha conosciuto?
«Era il suo diario finale, il tempo della malattia che lo ha consumato: don Massimo e io siamo diventati preti il 21 novembre del 1992, lui è morto due mesi dopo: sentiva il tempo correre, ha dovuto fare un atto di affidamento con la sensazione che l’opera non fosse pronta, che noi non fossimo cresciuti abbastanza. Ci ha lasciati nelle mani del vescovo e di quella Provvidenza che ci aveva sostenuti fin lì e cui affidava già tutti i ragazzi. Per diventare prete ha dovuto soffrire, la famiglia era poverissima, il papà emigrante in africa per lavoro. Da questa povertà agli altari di oggi ci sono state tante fatiche della vita e un’esistenza donata. Da figlio con un padre lontano, ha fatto da padre a tanti, puntando sempre a dar loro qualcosa di più: ha fatto il possibile per farli studiare».
Anche a lei entrato volontario, obiettore di coscienza e uscito sacerdote, ha cambiato la vita?
«Riusciva sempre a portarti dalla sua parte, mi ha anche fatto cambiare facoltà: stavo studiando Economia, mi ha convinto a passare a Giurisprudenza dicendomi: “Fallo per la comunità, non ho bisogno di un economista, ho bisogno di un giurista”. Così ha fatto con tanti: don Massimo, che è diventato responsabile della pastorale dei nomadi, lo ha mandato a formarsi nel campo della spiritualità. Michela Ravetti che da poco è la nuova responsabile della Casa del Giovane ha fatto una meravigliosa tesi di pedagogia. Il carisma era questo: una grande mediazione maschile e femminile, una fraternità molto simile a quella di cui parla papa Francesco: siamo tutti chiamati costruire unità, a non escludere chi soffre. La volontà di Dio cresce nella fatica, resiste chi si fida di Lui, chi non teme gli uomini e, anche nella sofferenza della persecuzione, li salva».
Lei oggi è parroco al SS. Salvatore (che la città conosce come San Mauro, cui è intitolato l'oratorio, dove don Enzo è arrivato fresco di sacerdozio e dove ha trovato un parroco che lo ha capito. Il 21 marzo inaugurerete il Piccolo chiostro, un chiostro benedettino per lungo tempo zona militare e ora recuperato, adiacente alla basilica. Che cosa diventerà?
«Abbiamo scelto di inaugurarlo il giorno di San Benedetto, quando la Chiesa è stata tolta dall’uso militare e restituita all’uso ecclesiale: diventerà la foresteria per i bisogni della città; un centro d’ascolto: per accogliere le persone in difficoltà e indirizzarle alla mensa del fratello, all’armadio da cui possono avere dei vestiti. Ma anche un luogo di formazione, è una cosa cui don Enzo teneva molto, lo facciamo con il centro di conservazione e di restauro. Vorremmo insegnare i lavori antichi e progettare un’idea di vita comune, un luogo aperto dove c’è cultura, accoglienza, comunione».
La Casa del Giovane per la prima volta ha scelto una donna come sua responsabile, nello stesso periodo papa Francesco apre a una donna il diritto di voto al sinodo. Sta cambiando qualcosa?
«Il fatto che nella comunità ecclesiale ci sia una dimensione paterna e materna insieme permette di superare il legalismo che s’è creato negli anni a favore di una dimensione più accogliente e più aperta. L’idea che abbiamo non è clericale, ma conviviale. È l’idea che permette a Michela oggi di essere responsabile di una comunità di educatori e di consacrati, che vogliono lavorare insieme. Chi meglio di una donna con una formazione pedagogica e religiosa può essere “responsabile di unità”, come dice il suo ruolo? È anche il segno che a 28 anni dalla morte del fondatore c’è la capacità di domandarsi: oggi che cosa serve? Da allora siamo avvicendati in tre: io che ero il primo ho avuto il compito di organizzare giuridicamente la struttura, il secondo, don Arturo Cristani, ha raccolto il materiale per la Causa di Beatificazione approfondendo il carisma della Casa del giovane. La terza oggi deve aprirla ai nuovi bisogni di una società in cui l’età della tossicodipendenza e dell’azzardo si stanno abbassando».
Torniamo un attimo indietro a don Enzo, oggi la Chiesa lo ha proclamato Venerabile. Nel diario di don Enzo leggiamo della sua preghiera tormentata. Ne avevate percezione o la teneva per sé?
«Negli incontri partiva sempre dalla sofferenza, dal ragazzo che aveva ascoltato, dalla famiglia di cui aveva accolto il dolore, poi però nel dialogo, nell’apertura, si trasfigurava: capivi che nella sofferenza degli ultimi contemplava qualcosa di più grande. Io ho avuto l’onere e l’onore di stargli vicino durante la malattia e l’ho accompagnato nei luoghi in cui è stato curato. La sua sofferenza era strutturale: perché empatizzava con la sofferenza degli altri. Faticava a dormire, leggeva moltissimo, aveva una grande capacità di analisi e di sintesi, prendeva appunti che poi rielaborava negli incontri e negli scritti con i ragazzi. Le cose che facciamo, anche nate dopo, sono frutto della sua lezione».