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venerdì 13 settembre 2024
 
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Don Giacomo Martino. Così la Chiesa di Genova sta accanto a vittime e sfollati

06/09/2018  Il responsabile diocesano della Pastorale dei migranti è stato tra i primi a mobilitarsi per l’accoglienza di chi ha perso casa nel crollo del Ponte Morandi. Anche i giovani rifugiati africani hanno fatto la loro parte, animando i bambini»

Don Giacomo Martino è un prete genovese  ordinato nel 1987, schivo e operante evangelicamente con gli ultimi nel solco della tradizione di quel cattolicesimo sociale e di carità che la città ha sempre avuto tra i suoi figli, laici e presbiteri. Il mare le sue temperie e asprezze ma anche la dolcezza dell’orizzonte e dell’infinito sono la cifra del suo ministero pastorale. «Fino a sette mesi fa ero riuscito a non fare mai il parroco», confessa con un sorriso. «Io sono un prete marittimo, navigante per molti anni. Sono sempre stato all’Apostolato del mare, responsabile a Genova e poi a livello nazionale della Stella Maris  (il servizio per la cura partorale dei marinai imbarcati e del personale dei porti, ndr). La mia casa è  il mondo,  il mare, la strada». Da qualche mese è anche parroco ed è un incarico che si aggiunge ai tanti che ogni giorno sono la croce e la vita di don Giacomo. «Sono veramente quindici gli incarichi che mi hanno affidato: parrocchia, cappellania in carcere e nei  Sert (Servizi per le tossicodipendenze) genovesi, l’ufficio migranti e molti sono borderline», dice con naturalezza.

Don Giacomo prete di Dio sulle strade del mondo?

«Io sono un balordo tra i balordi. È una definizione cui tengo. Il cardinale Bagnasco mi diceva che le cose normali non sono adatte per me.  Mi ritrovo nelle sue parole. Ognuno va con i suoi simili: io mi sento simile ai tanti disperati e in difficoltà con i quali ho condiviso il mio cammino. Sono molto contento di essere così. Mi piace stare con le persone semplici, con gli ultimi: immigrati, in carcere, con i ragazzi in difficoltà con le droghe, sono figli di Dio e fratelli in Cristo. Ho un brutto carattere ma cerco di aprire il cuore a tutti. Faccio mille cose perché sono accompagnato da persone che lavorano per me e con me. Coordino ciò che è realizzato da tanti, giovani, adulti, donne e uomini».

Il crollo del Ponte Morandi, una tragedia per Genova

«Lavorando nel mondo del mare il tema delle emergenze è una realtà costante. È una cosa che hai sempre davanti. Sei sempre pronto perché può succedere che possa accadere qualcosa di grave. Se tu sei pronto e preparato, hai una capacità di intervento più rapida. Il tragico 14 agosto, quaranta minuti dopo la notizia del crollo del Ponte Morandi, abbiamo dato subito comunicazione alla Prefettura e alla Protezione civile della disponibilità di 120 posti per l’accoglienza. Non sapevamo ancora niente, quante persone fossero state coinvolte, ma immediatamente abbiamo accolto decine di persone, in diverse strutture della diocesi presenti in città: il centro di accoglienza per i migranti sulle alture di Coronata, nei pressi del ponte crollato, in una casa diocesana, al Ceis e all’Auxilium Caritas. Abbiamo accolto persone che erano sull’autostrada e altre sfollate da via Fillak nelle abitazioni sottostanti il ponte crollato. Qualcuno è ancora nelle nostre case».

Il dolore indicibile dei famigliari delle vittime è stata una prova per voi?

«Ci sono stati i funerali alla Fiera del Mare che abbiamo dovuto organizzare ma vorrei ricordare soprattutto il servizio per i parenti delle vittime. Oltre le questioni logistiche, siamo stati impegnati soprattutto nel condividere il dramma della morte di vittime innocenti: famiglie, giovani, bambini. Stare vicino ai parenti che non avevano notizie di loro cari coinvolti nel crollo, essere presenti negli ospedali, all’obitorio per cercare di lenire il dolore straziante e insanabile dei congiunti è stato un momento toccante e delicato, difficile umanamente. I nostri sacerdoti, parroci e cappellani della diocesi di Genova don Alvise Leidi, don Massimiliano Moretti, don Alessandro Campanella e don Gianni Grondona si sono prodigati e avvicendati per tanti giorni dalle 8 di mattina alle 10 di sera all’obitorio per il servizio cristiano dell’ascolto e l’accompagnamento dei parenti, distrutti dal dolore». 

Gli sfollati un’emergenza che durerà a lungo, la situazione oggi e nel prossimo futuro

«Siamo in una condizione di stand by. Sono attese decisioni. Autostrade e autorità competenti hanno dichiarato di pagare i mutui alle persone e alla famiglie coinvolte, però c’è un problema di dove ricollocare queste persone che vorrebbero rimanere in zona, soprattutto gli anziani e le famiglie con bambini. Sono già stati trovati 66 appartamenti per 120 famiglie. La maggior parte è ancora ricoverata in queste strutture, in alberghi e dai parenti. In questo contesto di dolore ci sono storie positive da raccontare. L’animazione ai bambini da parte dei ragazzi africani, che accogliamo nella casa dei migranti a Coronata, che ci stanno aiutando molto nell’accoglienza e nel senso di fraternità rispetto a questa emergenza. Per noi è importante perché fare uscire i centri di accoglienza da uno stato di ghettizzazione per farli diventare un luogo di vita e condivisione è un obiettivo non solo possibile ma necessario. Nei giorni della massima emergenza oltre al lavoro dei tanti volontari anche molti ragazzi profughi che ospitiamo si sono resi disponibili per aiutare gli sfollati della zona rossa».

Da emergenza a emergenza. A Genova la realtà dei migranti.

«Il blocco delle spiagge libiche è un dramma. Sappiamo che in quei luoghi la gente è massacra. A Genova da 360 accoglienze previste siamo oggi scesi a 230 persone. Perché con il tempo molti sono riusciti ad ottenere lo status di rifugiato e molti non raggiungono più il nostro porto. Noi abbiamo lavorato a un modello di scuola. Abbiamo un vero e proprio campus di formazione e integrazione: 12 ore di italiano per tutti gli ospiti la settimana, oltre ad offrire insegnamenti di agraria, falegnameria e sartoria. La sfida è dare un futuro a questi ragazzi, dare loro la possibilità di emanciparsi e integrarsi in una dimensione di dignità sociale, al di là del semplice mangiare e dormire».

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