«Puoi pregare facendo il segno della croce o stando in ginocchio, l’importante è che siamo tutti amici. La guerra? Buuu!». Chi appoggiato a un muretto scrostato, chi seduto a gambe incrociate per terra, i ragazzi si mettono a ridere di fronte a un prete un po’ clown, che cerca di teatralizzare i gesti perché non tutti i ragazzi attorno a lui capiscono la sua lingua. C’è chi è arrivato da una banlieue parigina, chi stava fino a poche ore prima in un orfanotrofio di Sarajevo, chi dalla Croazia si ritrova accanto ai ragazzi di Gratosoglio, quartiere di edilizia popolare di Milano sud.
Don Giovanni Salatino passeggia tra loro come chi si sente a casa, in una Milano che per qualche giorno è diventata cuore multietnico del progetto Campus per la Pace.
«Ho chiesto di essere prete di periferia perché anche io sono cresciuto in una periferia. Credo che questi siano luoghi di rara verità». Parroco dal 2003, nato a Milano da genitori meridionali e cresciuto tra Corsico e Cesano Boscone, don Giovanni per dieci anni è stato in Barona, nella zona sud-occidentale della città, per poi spostarsi nel 2013 a Grattasoeuj, come è chiamato in dialetto milanese, alla parrocchia Maria Madre della Chiesa e San Barnaba.
Proprio qui, in questo quartiere da molti considerato come un puro dormitorio di extracomunitari a tratti emarginati dalla grande Milano, don Giovanni ha scelto di far mettere radici al Campus per la Pace, una settimana di eventi che ha permesso a ragazzi da tutta Europa, ma anche della Bosnia-Erzegovina, di immaginare insieme come potrebbe essere la città del futuro, tra accoglienza, tolleranza religiosa e integrazione. «Vogliamo partire dalle paure che ci portiamo dentro, smascherarle, e imparare a scegliere quale futuro vogliamo per la nostra città».
L’INTEGRAZIONE POSSIBILE
Al don della periferia il desiderio di essere prete è nato da piccolo, attorno ai 13 anni. «Volevo essere come il mio parroco. Ho fatto il liceo fuori dal seminario e poi sono entrato nell’istituto ecclesiastico di Milano», racconta Giovanni, con la bocca sempre pronta alla risata. «Credo che sia questo il modo giusto di vivere la mia vita, volendo bene a Gesù e agli altri». E volere bene al suo quartiere significa spingerlo lontano dalla ghettizzazione. «Il modello di città che ho in mente è l’antitesi di Gratosoglio, un quartiere separato tra una parte medio-borghese e un’altra di case popolari, con aree comuni in stato di abbandono e una percezione della paura altissima», racconta don Giovanni mentre saluta con una pacca sulle spalle i ragazzi del Campus. «Dobbiamo scommettere sull’integrazione. E dobbiamo farlo partendo dai giovani».
UN MIX DI CULTURE
Sfida accettata, ed ecco quindi incontrarsi, nella terza settimana di febbraio nella parrocchia di Gratosoglio, otto ragazzi da Saint Denis, luogo simbolo della difficile banlieue parigina, fra i principali agglomerati urbani del dipartimento dove sono nati sia i due fratelli protagonisti dell’attentato alla redazione parigina di Charlie Hebdo sia uno dei due kamikaze che si è fatto esplodere al Bataclan. Vivere in quel distretto è una sorta di marchio sociale, in Francia. «Qualcuno ha messo una maschera sul volto del diverso disegnandolo come nemico», continua il prete 38enne, «fino ad arrivare alle assurde situazioni italiane, dove alcuni extracomunitari pagano le tasse ma non gli viene riconosciuto neppure un luogo dove pregare».
Insieme ai ragazzi parigini, dodici liceali di Sarajevo e quattro adolescenti da una regione croata al confine con la Bosnia-Erzegovina. A fare da collante con l’Italia, una trentina di adolescenti di Gratosoglio e cinque scout musulmani della periferia nord di Milano. Ragazzi dai 16 ai 22 anni che sono stati ospitati proprio dalle famiglie del quartiere milanese per provare, insieme, a immaginare cosa significa la “convivenza” tra diverse religioni.
SPAZIO DI INTEGRAZIONE
«L’integrazione va costruita. A Gratosoglio uno dei problemi grossi su cui stiamo lavorando con don Giovanni è proprio l’integrazione tra culture diverse. Ovvio che ci siano delle difficoltà ma dobbiamo riuscire a immaginare un nuovo spazio dove vivere insieme», racconta Gabriele Capuzzoni, educatore della cooperativa Farsi Prossimo che lavora al progetto Campus per la Pace. Alle sue spalle, Lejla Vrcic sta abbracciando una bambina affannata dopo una corsa. Ha 16 anni, Lejla, e viene dalla capitale della Bosnia-Erzegovina. «Nella mia città ideale tutte le persone trovano un lavoro a prescindere dall’appartenenza religiosa». Accanto a lei sua madre, Edina Avdispahic, tra le traduttrici del Campus per la Pace. «A Sarajevo esiste una grande tolleranza religiosa, per questo è utile che i nostri ragazzi parlino con quelli italiani». È musulmana, Edina, eppure sua figlia porta una croce cristiana al collo. «Non importa che indossi il simbolo di un’altra religione perché anche la croce è un segno di pace».
LA FEDE AIUTA A VEDERE L’ALTRO
Edina si avvicina a don Giovanni, sorridendogli: «Quest’uomo ha fatto molto per la mia città». Perché il Campus per la Pace poggia un piede nella periferia di Milano e un secondo proprio nella capitale della Bosnia. «C’è un contatto continuo tra i ragazzi della parrocchia e quelli di Sarajevo», racconta Capuzzoni, responsabile del progetto Sarajevo, gestito da Associazione sviluppo e promozione. «Nel modello di convivenza ma anche di disintegrazione di Sarajevo, abbiamo ritrovato le stesse dinamiche che vediamo nell’Europa di oggi», continua don Giovanni raccontando la città oltre l’Adriatico come uno specchio capace di fare capire agli italiani gli errori cui una mancata integrazione potrebbe portare. «C’è un motivo evangelico profondo che mi porta a denunciare ogni violazione della dignità umana», racconta il prete della periferia mentre cammina veloce da un evento all’altro del Campus per la Pace. «È la mia fede che mi spinge a pormi di fronte all’altro riconoscendo in lui un figlio di Dio, a prescindere dalla sua appartenenza sociale o religiosa». «L’integrazione è possibile», sorride il giovane prete dalla rapida camminata. «Le nuove generazioni sono pronte».
Foto di Chiara Asoli.