A un certo punto prende in
mano una versione inglese
della Bibbia, stampata
nel Regno Unito, venduta
in Nordafrica, finita sul
fondo del Canale di Sicilia
nella sacca di un pover’uomo
alla ricerca di
un futuro migliore. «Me l’ha regalata
un pescatore. È tutto ciò che resta di
un immigrato maghrebino morto
durante la traversata. Sai, spesso l’appoggio
sull’altare quando celebro. Ci
ricorda tutti i crocifissi di oggi».
Abita un’ex fabbrica metalmeccanica,
vive la storia e distilla speranza,
don Luigi Ciotti. Un vezzo, l’unico:
«Sono un montanaro, da sempre
iscritto al Club alpino italiano, sezione
Pieve di Cadore». Un amore, su tutti:
«La Parola di Dio, che mi orienta
e mi dà forza».
Una compagnia di
viaggio la più variegata ed eterogenea
possibile: dai tossicodipendenti alle
prostitute, dai malati di Aids alle vittime
dell’usura e a quelle della mafia.
Si
accinge a vivere un anno, il 2015, ricco
di anniversari, don Ciotti: «Il Gruppo
Abele compie 50 anni, Libera 20 e io,
sommessamente, ne faccio 70, il prossimo
10 settembre».
La sede in cui ci riceve, in corso
Trapani, a Torino, era una volta la
Cimat, un’azienda specializzata nella
produzione di macchine utensili:
«Chiuse definitivamente i battenti nel
1976, l’allora arcivescovo, il cardinale
Michele Pellegrino, solidarizzò con i
dipendenti».
Del passato operaio rimangono
certe attrezzature a vista.
Il salotto in cui riceve è attiguo alla
cucina, giusto un tavolo e una credenza.
Tra libri e foto di famiglia, la camera
da letto custodisce anche una manciata
di coloratissime stole, alcune arrivate
dall’America latina, più una bianca:
«Era di don Tonino Bello, il vescovo
profeta della pace, amico dei poveri».
- Per Famiglia Cristiana sei l’italiano
dell’anno.
«La cosa mi imbarazza, sai...».
È il nostro modo di dire che apprezziamo
il tuo stile di stare accanto
a chi non ha voce né diritti.
«Sono un prete...».
- Già, prete di strada...
«Prete e basta».
- Perché hai scelto di diventare sacerdote?
Cos’è cambiato nel vivere il
tuo ministero in questi anni?
«Vocazione è essere scelti, molto
più che scegliere. È aderire a qualcosa
che riguarda la parte più profonda del
nostro essere. La vocazione è una voce
che chiama e che chiede una risposta.
Ed è perciò anche una responsabilità.
Io credo di essere stato prete ancora
prima di diventarlo nei fatti. Poi, ovviamente, c’è modo e modo d’interpretare
e vivere l’essere preti, il tuo incontro
con Dio e con gli altri».
- C’è qualche persona, in particolare,
che ha segnato la tua vocazione?
«Io ho avuto la fortuna di contare
su due grandi vescovi, Michele Pellegrino
e Anastasio Ballestrero. Così
come su altri grandi figure che mi
hanno arricchito con il loro affetto e
la loro amicizia: don Franco Peradotto,
padre Turoldo, don Tonino Bello.
Quanto al mio “ministero”, si è lasciato
plasmare dalla vita delle persone,
dai loro bisogni e dalle loro speranze.
Come persona, come prete e come cittadino,
io sono quello che le relazioni
con gli altri hanno fatto di me. Il Vangelo
è stato il mio riferimento, la cartina
di tornasole della mia coerenza,
della mia autenticità, senza dimentil’espressione
“prete di strada”. Nell’essere
prete è insita la dimensione della
strada, del cammino, dell’incontro,
della ricerca. Il panorama della strada
è cambiato, sono cambiati volti e problemi.
Non è cambiato il bisogno di dignità
delle persone, non è cambiata la
loro speranza di libertà».
La strada in fondo pone sempre
alla coscienza una domanda molto
scomoda: come fare – anzi cosa puoi
fare – affinché tutte le persone abbiano
accoglienza, abbiano una casa, un
lavoro, una dignità, siano chiamate
per nome, non siano un numero, una
cosa, una merce?
«Questa è la domanda fondamentale
della strada. Ed è una domanda
che tendiamo a eludere. Fingiamo di
non sentire, di non vedere. Altrimenti
la strada non sarebbe sempre così
care la Costituzione, perché ho sempre
creduto che l’essere prete voglia dire
tenere insieme terra e cielo, la dimensione
spirituale e l’impegno civile, carità
e affermazione dei diritti».
- Tossicodipendenti, malati di Aids,
vittime della mafia e dell’illegalità:
da sempre scegli compagni di viaggio
“scomodi”.
«La strada è il Vangelo. Sono indissolubili.
Per questo non mi piace l’espressione
“prete di strada”. Nell’essere
prete è insita la dimensione della
strada, del cammino, dell’incontro,
della ricerca. Il panorama della strada
è cambiato, sono cambiati volti e problemi.
Non è cambiato il bisogno di dignità
delle persone, non è cambiata la
loro speranza di libertà».
La strada in fondo pone sempre
alla coscienza una domanda molto
scomoda: come fare – anzi cosa puoi
fare – affinché tutte le persone abbiano
accoglienza, abbiano una casa, un
lavoro, una dignità, siano chiamate
per nome, non siano un numero, una
cosa, una merce?
«Questa è la domanda fondamentale
della strada. Ed è una domanda
che tendiamo a eludere. Fingiamo di
non sentire, di non vedere. Altrimenti
la strada non sarebbe sempre così piena di disperazione, di smarrimento,
di bisogni non raccolti. L’aspetto
che più balza all’occhio, rispetto a
quando ho cominciato la mia storia di
prete, è che la strada, allora, era segnata
soprattutto da emarginazione, fatica
esistenziale, malattie, dipendenze».
- Oggi non solo da quelle.
«Oggi ci sono interi pezzi di società
che non hanno più i mezzi materiali
per vivere con dignità. Che sono
stati “sfrattati”. Che non hanno più
cittadinanza. Non è un segno di progresso.
Siamo andati senz’altro avanti
nel campo delle tecnologie, delle telecomunicazioni,
delle scienze. Ma nel
campo dell’umanità, dell’accoglienza,
del rispetto della diversità, dei diritti,
della uguaglianza, c’è stato un regresso,
un tradimento degli ideali che dovevano
plasmare il mondo all’uscita
dall’ultima guerra mondiale. Se si leggono
la Costituzione e la Dichiarazione
universale dei diritti umani, e poi ci
si guarda intorno, non si può non provare
un senso di vergogna».
- Com’è cambiata l’Italia?
«Pensavo ovviamente anche al nostro
Paese dicendo queste ultime cose.
Non ha molto senso fare paragoni,
perché ogni tempo, ogni epoca ha le
sue caratteristiche, le sue peculiarità.
Certo è che l’Italia a un certo punto
ha smesso di crescere. Ma attenzione,
non parlo di crescita economica, di
prodotto interno lordo – che è l’unica
“crescita” alla quale sembra diamo importanza
– ma di crescita culturale, di
coscienza di sé e delle proprie responsabilità.
L’attuale crisi è economica
nelle conseguenze, ma culturale ed
etica nelle premesse.
Nasce dal modo
in cui viviamo il nostro essere cittadini, il nostro essere parte di una società
e di una comunità. Nasce dall’indifferenza
e dal cinismo, dall’idea molto
diffusa che l’interesse individuale – o
di piccole cerchie e corporazioni – sia
contrapposto al bene comune. Nasce
dalla corruzione, che è la malattia del
potere e del possesso».
Il malaffare ha purtroppo contraddistinto
anche il 2014...
«Il quadro nell’insieme non è positivo,
non è rassicurante. Ma la lucidità
di analisi deve implicare l’impegno e
dunque la speranza. È troppo comodo
denunciare quello che non va e poi
starsene con le mani in mano. Siamo
tutti “professori” quando c’è da criticare.
Ma la giusta critica, la giusta analisi,
devono poi tradursi in impegno, in
responsabilità. E sotto questo profilo
vedo dei segni positivi, in particolare nei giovani, che si ribellano all’idea di
un mondo fatto su misura dei ricchi,
dei potenti, dei privilegiati e dei raccomandati,
un mondo per pochi dove
gli altri devono stare fuori dalla porta
e arrangiarsi. Primo Levi parlava della
crudele logica selettiva dei lager, di
“sommersi e salvati”. Ma attenzione,
che anche nel nostro mondo si stanno
formando dei piccoli lager dove finisce
la disperazione delle persone escluse».
- Siamo una società con un tasso
crescente di esclusione...
«La società dell’io non è una società.
È una coabitazione d’individui
legati se va bene da un interesse. Non
amici, ma complici. Uniti quando l’interesse
è comune, nemici quando è
contrapposto. Alla fine si torna sempre
lì, al rapporto umano. La qualità
della vita sociale è data dallo spazio che diamo agli altri nella nostra vita.
Per questo l’incontro con la diversità,
l’interazione (non l’integrazione, l’assimilazione)
con le persone immigrate,
il reciproco scambio umano e culturale
sono una grande opportunità di
crescita per costruire una società più
giusta e più umana».
- Com’è cambiata la Chiesa?
«Occorre sottolineare che la Chiesa
è fatta di tante chiese, di tante sensibilità,
tanti modi di vivere la fede e di praticare
il Vangelo, quindi sarebbe presuntuoso
da parte mia giudicare un
processo così vasto e complesso. Posso
però dire che in questi decenni il grande
rinnovamento del concilio Vaticano
II, la speranza di una Chiesa del
mondo e per il mondo, presente nella
storia non tanto per affermare o difendere
la dottrina, ma per farne strumento
di Vangelo, cioè di liberazione
dell’uomo anche su questa terra, si è
tenacemente fatto strada, nonostante
gli ostacoli, le resistenze, le interpretazioni
al ribasso».
- Chi si appella alla tradizione giudica
ciò sovversivo, rivoluzionario...
«È semmai un ritorno alle origini,
alla sobrietà e alla povertà del Vangelo.
Cioè a una Chiesa che non sia fine,
ma mezzo, che sia al servizio di tutta
l’umanità, senza chiedere certificati
d’idoneità. Una Chiesa che accoglie e
che va a cercare le persone accolte. La
Chiesa che ci chiede di costruire, papa
Francesco la definisce così: «Non una
dogana, ma la casa paterna dove c’è
posto per ciascuno con la sua vita faticosa
». Il Papa ha messo al centro della
riflessione il tema del potere, un tema
su cui anche la Chiesa e tutti i credentante
ti sono chiamati a riflettere perché la
fedeltà al Vangelo si misura anche in
termini di spoliazione, di rinuncia al
potere e all’avere. L’autorevolezza spirituale,
inseparabile dall’etica, viene
da quello che si è e si fa, non da quello
che si mostra di essere. Credo che
come preti, come cristiani, dobbiamo
aiutare il Papa in questo progetto, perché
è indubbio che anche la Chiesa
ha bisogno di purificarsi, di cambiare
profondamente quanto ad assetti, codici,
procedure di gestione e, duole dirlo,
lussi e sfarzi inaccettabili».
- Com’è cambiata la tua vita dopo le
minacce della mafia?
«È più complicata nell’organizzazione,
non nella sostanza. Quelle minacce
erano da mettere in conto. Alle
mafie – e ai loro complici – disturbano
soprattutto due cose.
Che gli vengano confiscati i soldi, le proprietà illegittime.
E che vengano realizzati progetti
che educhino alla coscienza critica
e alla responsabilità, cioè a una vita
libera, irriducibile al sonno della coscienza,
all’indifferenza che fa il gioco
delle mafie e della corruzione.
Ora il
punto è che Luigi Ciotti è solo una piccola
persona che cerca d’impegnarsi in
questo senso, ma insieme a lui ci sono
migliaia di persone.
Quelle minacce dunque non colgono il segno, perché
una persona puoi minacciarla e credere
di fermarla, un movimento e un
impegno collettivo no».
- Con don Gino Rigoldi e don Virginio
Colmegna dalla Statale di Milano
hai ricevuto la laurea honoris causa
in Comunicazione. Un’occasione per
riflettere sulla forza, e sulla responsabilità,
della parola...
«È un problema enorme. Posso sintetizzare
così: oggi la forza della parola
è inversamente proporzionale alla sua
responsabilità».
- Viviamo un’epoca di moltissime
parole. Quante di queste sono “connesse”
con la vita, con la ricerca di verità?
Quante sono utilizzate per illuminare
la conoscenza e la coscienza,
e quante invece per addormentarla,
per distrarla creando facili illusioni?
«È una malattia, quella della parola,
che tocca più ambiti della vita, ma
che nei luoghi del potere – la politica,
l’economia, l’informazione – può avere
esiti disastrosi, perché se il potere
non cerca la verità o dice altro al posto
della verità, ci sentiamo autorizzati a
credere che non esiste giustizia, e che
la forza prevale sul diritto. Una parola
staccata dalla vita e dalla ricerca della
verità è una parola screditata, una parola
inaffidabile. Per questo dobbiamo
riscoprire la responsabilità della parola
e smascherare l’inganno delle parole.
Il che significa innanzitutto imparare
di nuovo ad ascoltare, a mettersi
nei panni degli altri, a ridurre un po’
questo “io” gonfio di parole. L’ascolto
viene prima del parlare, come il leggere
viene prima dello scrivere.
(ha collaborato Alberto Chiara)