Venticinque anni. Non c’è stato un giorno in cui non abbiamo sentito la presenza di don Peppe Diana attraverso l’impegno di chi, con tenacia e spesso coraggio (essendo un impegno, ahinoi, ancora troppo controcorrente), cerca non solo di “seguire” il Vangelo ma di viverlo, di tradurlo in scelte e comportamenti, dentro e fuori dalla Chiesa. Ma se c’è stato un giorno in cui don Diana lo abbiamo sentito non solo presente, ma vivo, è stato il 21 marzo del 2014 nella chiesa di San Gregorio a Roma, alla vigilia della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, che si svolse quell’anno a Latina. Quel giorno, a San Gregorio, papa Francesco incontrò un migliaio di famigliari delle vittime, tra cui quelli di don Diana e don Pino Puglisi. E al momento della benedizione, appoggiai con commozione sulle spalle del Papa la stola di don Peppe.
Francesco parlò ai famigliari con grande trasporto, ringraziandoli per la loro quotidiana testimonianza, per la scelta difficile di non chiudersi ma di trasformare vuoti tanto strazianti in impegno per la giustizia. E poi si rivolse a quelli che definì i “grandi assenti”, gli uomini e le donne della mafia, esortandoli “in ginocchio” a una conversione: «Il potere e il denaro che accumulate è sporco di sangue», sottolineò, «e non potrete portarlo nell’altra vita». Don Peppe quel giorno era vivo nelle parole e nello slancio di un Papa che incarnava la Chiesa che Peppe aveva sognato e per la quale aveva messo in gioco la sua vita, una Chiesa che non si limita appunto a predicare il Vangelo ma lo vive, facendone un concreto strumento di liberazione e di giustizia a partire da questa Terra.
Ecco perché oggi è essenziale fare del ricordo un pungolo di coscienza, una memoria viva. E un grande stimolo ci viene, in questo frangente in cui la sacra parola “popolo” rischia di diventare un concetto ambiguo, strumentale, una foglia di fico alla sete di potere dei “populisti”, proprio dal documento Per amore del mio popolo non tacerò, che don Peppe scrisse e pubblicò insieme ai sacerdoti della foranìa di Casal di Principe nel Natale del 1991, pochi mesi prima delle stragi di mafia, di quella storia di immane violenza che la mattina del 19 marzo 1994 uccise il corpo ma non lo spirito di quel giovane, scomodo prete che si apprestava a celebrare la Messa.
Colpisce, di quel testo, la profezia e la profondità di sguardo. Don Peppe non si limita a denunciare il male, ma ne mette in luce il legame con un più generale vuoto di coscienza e di civiltà. C’è la descrizione puntuale della mafia camorristica, il suo evolversi già come mafia imprenditoriale, mafia non solo delle armi, ma della tangente e dell’appalto. Ci sono le responsabilità politiche, i vuoti amministrativi e istituzionali, la burocrazia, il clientelismo, il dilagare della corruzione. C’è l’invito alla Chiesa a «farsi più tagliente e meno neutrale», più coerente con «la prima beatitudine del Vangelo che è la povertà», in quanto «distacco dal superfluo, da ogni ambiguo compromesso e privilegio». Ci sono insomma le indicazioni essenziali per costruire comunità in cui tutti contribuiscano alla libertà e dignità di ciascuno. Per ricordare don Diana è allora importante meditare sulle sue parole, ma occorre anche trasformare la meditazione in azione, occorre fare del suo messaggio il nostro impegno.