Seduto di fronte a Francesco senza mai distogliere gli occhi, per commentare insieme il Padre nostro. Intimidito all’inizio, come un bambino su una sedia che dava l’impressione di essere troppo grande per lui. Poi sempre più incalzante nelle domande, più vicino e fiducioso. A distanza di un paio di mesi dalla trasmissione su Tv2000 condotta insieme al Papa, don Marco Pozza, vicentino di Calvene, 38 anni, confessa che questa «avventura» è stata «una grazia immensa», che ha cambiato per sempre la sua vita di sacerdote.
Appassionato scrittore, sportivo (ha corso cinque maratone) e giornalista (nel 2016 ha vinto il premio Biagio Agnes) don Pozza si definisce «un prete non tanto normale», appassionato di molte cose. Sopra a tutte, però, mette il suo essere parroco di 850 anime rinchiuse nel carcere di massima sicurezza Due Palazzi di Padova. Un’altra avventura, iniziata nel 2011, che ha cambiato per sempre il suo modo di pensare. L’incontro con il Papa, del resto, è maturato proprio dentro l’esperienza del carcere.
Don Marco, quando ha incontrato per la prima volta Francesco?
«Ha voluto incontrare i carcerati e di conseguenza ha incontrato anche me. È successo la domenica del Giubileo dei detenuti, il 6 novembre dell’Anno della misericordia, a Roma: nel pomeriggio, con una telefonata a sorpresa, ha invitato il nostro gruppo a passare a salutarlo a casa Santa Marta. Siamo stati vittima di questi agguati telefonici, che hanno cambiato la traiettoria della nostra storia. E la cosa imbarazzante è che all’inizio del suo pontificato ero incerto: avevo studiato sui testi di Joseph Ratzinger, avevo la mia idea di Chiesa, la mia teologia, e non riuscivo a capire dove portasse questa misericordia di cui Francesco continuava a parlare. Dio deve essersi detto che l’unico modo per farmela capire era farmelo incontrare di persona. Da quel momento ho cominciato a intuire cosa il Papa intende quando dice che la misericordia non è una teoria ma una manovra seria che cambia la vita. Da quel giorno si è aperta un’avventura che non avrei mai immaginato».
Com’è cambiata la sua vita?
«Nonostante sia prete ho sempre avuto grandi problemi con “l’istituzione”. Non avrei immaginato che il massimo dell’istituzione nella Chiesa sarebbe diventato il parroco che non ho mai avuto. Il mio sacerdozio ha trovato quella serenità – sempre, sia chiaro, nell’inquietudine che caratterizza la mia struttura personale – che però mi permette di poter scorgere dei frammenti di paradiso anche dentro questa realtà infernale in cui mi trovo a esercitare il mio ministero. Ora mi sento meno solo come sacerdote in una terra così difficile come quella del carcere. Sentirmi meno solo significa sentire quella compagnia che ti permette di superare le paure, e quella terribile tentazione di Satana che ti spinge a dire “Non serve a niente quello che sto facendo”».
Commentare il Padre nostro: com’è nata l’idea di una trasmissione televisiva?
«Avevo un conto in sospeso con il Padre nostro. Non riuscivo più a pregarlo. Era una preghiera che “andava via” in automatico e quando mi è stato proposto di fare questo programma in prima serata ho capito che c’era un unico modo per riappassionarmi: cercare di parlarne con gente che non la prega, e non riconosce Dio come padre. È iniziato, quindi, questo viaggio assieme a persone non credenti, atee, con un rapporto difficile con la fede, per riscoprire quella freschezza che loro, senza pregare il Padre, avevano. E che io avevo perduto. Poi, un giorno, ho scritto una lettera al Papa raccontandogli quello che stavo facendo e dicendogli che il mio sogno sarebbe stato quello di avere un intervento suo, anche di cinque secondi, nell’ultima puntata. Dopo 48 ore, invece, mi ha telefonato. E i cinque secondi sono diventati nove puntate fatte insieme. Questo rivela la straordinarietà di un uomo che, appena fiuta che c’è qualcosa che vale la pena, non esita a metterci la faccia. Non ha fatto nemmeno quattro conti sul fatto che “questo prete non è molto normale”. Quando ti dà questa fiducia in un certo senso ti imprigiona. Non riesci più a tradirlo!»
Com’è stato colloquiare con lui per quasi un’ora?
«Umanamente scandaloso, in maniera positiva. Mi sembrava di conoscerlo da una vita. La sensazione è stata quella di un bambino che ormai è diventato grande e da tanto tempo non vede suo nonno e lo ritrova. I primi momenti c’è una sorta di imbarazzo: da dove cominciamo? Poi basta che uno apra la bocca e si riapre una storia. Di una cosa sono certo: non è stata una pagina professionale della mia vita, ma un’esperienza di grazia, fino all’ultima volta che ci siamo visti».
Cosa l’ha colpita?
«L’impressione che provano un po’ tutti è che quando lo incontri di persona hai la sensazione che si sta occupando esclusivamente di te. Non esiste nessun’altra persona al mondo eccetto te. Penso che questa vicinanza umile gli venga da un’indipendenza d’animo interiore che è spaventosa, tipica degli uomini che frequentano Dio giorno e notte. Io ho questa sensazione: che sia un uomo che si frequenta con Dio continuamente».
Che cosa le rimane di questo incontro?
«Un senso di gratitudine. Sentire che sono peccatore, ma che Dio prende la mia vergogna e la trasforma in qualcosa di straordinario, che diventa una piccola parte della storia della salvezza. Non avevo mai pensato prima che provare vergogna sia una grazia. Se ci penso, però, sono stati i miei parrocchiani, i detenuti di Padova, i primi a farmelo capire. Vengo da una famiglia leghista, in cui mi hanno sempre insegnato che se uno sbaglia deve pagare ed è meglio che marcisca in una patria galera. Anni fa, per uno scherzo del destino, mi è capitato di dover sostituire un mio amico prete nel carcere romano di Regina Coeli per celebrare una Messa e lì sono entrato in crisi intellettuale… non spirituale, non sono ancora a quei livelli di santità, però mi è bastato. Quello che conoscevo del carcere era letteratura, ma non avevo ancora incontrato una persona detenuta. Quando sono uscito da là mi sono detto che, se volevo diventare un uomo, dovevo anche ammettere di aver sbagliato a ragionare in un certo modo. Sono andato dal mio vescovo e ho detto: “Io devo riconsegnare dieci anni di sacerdozio a questa gente che ho offeso intellettualmente”. È cominciata così questa mia conversione. Che per ora è intellettuale, poi magari un giorno diventerà anche spirituale, per ora sono arrivato a questo gradino. Una cosa è certa: se non avessi fatto il parroco in carcere non avrei incrociato sulla mia strada papa Francesco».
All’inizio Francesco non l’aveva conquistata. Qual è stato il momento di svolta?
«È successo una mattina. Mi ha invitato a Santa Marta a celebrare la Messa con lui. In quell’istante, nel momento in cui consacrava, mi sembrava di essere in presenza di una persona mistica. Sono uscito dalla chiesa, l’ho abbracciato e dentro di me mi sono detto: “Io a quest’uomo giurerò fedeltà eterna, perché è l’uomo che ci è stato mandato da Dio per questo pontificato”. Da lì in poi non ho avuto dubbi, mi sono affezionato anche intellettualmente a lui e, per il poco che posso fare, spenderò questi anni del mio sacerdozio per aiutarlo a dare forma a quella nuova Chiesa alla quale sta cercando ostinatamente di far mettere radici».
Quali sono i punti “forti” della visione di Chiesa di Francesco?
«Usare i verbi in forma passiva. Smetterla di dire: “Andiamo a incontrare Cristo” e cominciare a dire: “Lasciamoci incontrare da Cristo”. Smettere di dire: “Guardiamo Cristo” e dire: “Lasciamoci guardare da Cristo”. Per me questo è “il punto di appoggio di Archimede” per sollevare il suo pontificato. L’intuizione di Dio che gioca in anticipo: quando ti accorgi di lui, scopri che lui si era già accorto di te. Ed è impossibile scappare da questo assedio che coinvolge tutti e cinque i sensi».
Perché secondo lei c’è chi continua a contrapporre Ratzinger a Bergoglio?
«È una contrapposizione che non esiste. Detto questo, bisogna essere intellettualmente onesti e dire che quello che sta facendo oggi papa Francesco gli è stato possibile proprio perché c’è stato papa Ratzinger che come un ingegnere è riuscito a tracciare la traiettoria di questi stessi percorsi. La mia fortuna è che a casa ci hanno insegnato ad amare il Papa, qualunque sia il suo nome. Di conseguenza non avverto questa differenza fra papa Francesco e papa Benedetto. Avverto l’acidità intellettuale, che è costruita a tavolino, nel voler smantellare un pontificato che – su questo hanno ragione – sta offrendo un’immagine diversa di Chiesa, che chiede alla Chiesa stessa di rimettersi in gioco. Tutto secondo me parte da un passaggio dell’Evangeli gaudium, quando Francesco dice che non dobbiamo mai dare delle risposte a domande che nessuno si pone. Probabilmente è andato a toccare questo punto: sta cercando di dare delle risposte a delle domande che fanno sanguinare il cuore delle persone, soprattutto quelle che si sono allontanate deluse dalla Chiesa perché si sono sentite giudicate».