Uno strano sacerdote con una capacità comunicativa fuori dal comune. Tra i vincitori del Premio internazionale di Giornalismo Biagio Agnes quest’anno c’è anche don Marco Pozza, 37 anni, sacerdote vicentino (nato a Calvene, ai piedi dell’Altopiano di Asiago), prete “controvento” come ama definirsi, teologo, maratoneta, giornalista e scrittore, autore di libri di successo quali “L’imbarazzo di Dio” (2014) e “L’agguato di Dio” (2015), entrambi per le Edizioni San Paolo, è da cinque anni il cappellano del carcere di massima sicurezza “Due Palazzi” di Padova. Ancora di sé dice: “sono uno straccio di prete al quale Dio s'intestardisce ad accreditare simpatia, usando misericordia”.
Di certo non gli manca la capacità di entrare nelle menti e toccare il cuore dei giovani. Le sue conferenze in ogni parte d’Italia gremiscono le sale. Innamorato di Antoine de Saint-Exupéry, l'autore del "Piccolo Principe", ha conseguito il Dottorato in Teologia alla Pontificia Università Gregoriana con una dissertazione su "Cittadella", opera postuma dello scrittore-aviatore francese. Vive per scrivere e non il contrario, come dice nel suo sito internet “Sulle strade di Emmaus”, la sua “parrocchia virtuale”. Qui, seguendo il motto del teologo svizzero Karl Barth “in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale”, commenta i passi del Vangelo e le notizie di cronaca. Ha esordito come scrittore con "Penultima lucertola a destra" (Marietti 2011) e "Contropiede" (San Paolo 2012). Il segreto del suo seguito è il passaparola dei ragazzi incontrati in scuole e teatri.
don Pozza assieme al vescovo di Padova, monsignor Claudio Cipolla
Don Pozza è un prete di strada. Fin dall’inizio del suo ministero ha sempre cercato il contatto con la gente, soprattutto le giovani generazioni, sempre più distanti dalla chiesa e dalle parrocchie. Una vicinanza che gli è valsa l’appellativo di “Don Spritz”, per aver cercato i giovani nei locali all’ora dell’aperitivo. Ma la sua vera parrocchia l’ha poi trovata entrando in carcere come cappellano. “Da bambino odiavo i detenuti”, racconta, “così ha accettato di fare il cappellano del carcere per restituire dieci anni del mio sacerdozio a questa gente che avevo offeso inconsciamente. E quella gente oggi è la mia comunità. Cerco di entrare nella loro rabbia, cerco di scoprire il non-inferno che è dentro a quell’inferno”. E ancora aggiunge: “Non è straordinario che in questo luogo apparentemente abbandonato da Dio e imbarazzante per gli uomini, la fede passi ancora, come ai tempi della Chiesa primitiva, di persona in persona, di cella in cella?”, si chiede il sacerdote.
“Dietro le sbarre ho sperimentato che l’amore lavora oltre la giustizia. Qui cerchi un Dio che sembra giocare a nascondino. Io l’ho trovato in questa gente che mi ha convertito e mi ha fatto capire il Gesù evangelico. Per trent’anni ho letto il Vangelo come fosse un film straniero senza sottotitoli. Poi sono arrivato qui e i detenuti me lo hanno tradotto”. Don Marco durante la messa in carcere, ha inserito un momento particolare: alla preghiera per i defunti fa fare quindici secondi di silenzio in cui chi s’è macchiato d’omicidio ricorda nome e cognome della persona uccisa. “In pochi mesi i cinque carcerati che si accostavano alla confessione sono diventati quaranta. Credo nella resurrezione dei vivi, prima che in quella dei morti”, conclude.
E’ editorialista dell’Avvenire, collabora con il Mattino di Padova e l’Altopiano. Sulla scrittura ha detto: “Per qualcuno, come il sottoscritto, la scrittura è diventata nel tempo una sorta d'annunciazione: anche rivelazione, dunque rivoluzione. Scrivendo di altri, svelo me stesso al lettore, guadagnando una conoscenza più vera anche di me stesso: facendo i conti con ciò che accade, mi accorgo di essere anche il frutto di ciò che mi attraversa, delle notizie che mi interpellano, non solo di ciò che la scuola mi ha lasciato in dote”.