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venerdì 13 settembre 2024
 
Gravi violazioni del diritto d’asilo
 

Don Mussie: «Salviamo quei 200 eritrei»

11/08/2014  Il prete eritreo lancia un appello perché venga bloccato il ritorno in patria forzato del grosso gruppo di eritrei da parte delle autorità sudanesi: significherebbe una dura prigionia, oppure torture e morte per i profughi fuggiti da uno dei Paesi più repressivi del mondo.

«Non c’è un minuto da perdere, le prossime ore saranno decisive per la sorte di 200 eritrei che si trovano in una prigione sudanese a 35 chilometri da Khartoum». L’appello è di don Mussie Zerai, il sacerdote cattolico che con l’Agenzia Habeshia denuncia dalla Svizzera i soprusi subiti dai migranti del Corno d’Africa in varie parti del mondo.

Duecento di loro, tra cui quindici minorenni non accompagnati, rischiano di essere rimpatriati in Eritrea dopo un accordo ‒ inedito e che potrebbe aprire la strada a una pessima pratica ‒ tra il Governo di Khartoum e la dittatura di Isaias Afewerki.

In questo gruppo di migranti, inizialmente c’erano anche 34 donne con alcuni bambini piccoli. Tutti sono stati arrestati oltre tre mesi fa, mentre marciavano tra le dune del deserto per raggiungere il campo delle Nazioni Unite di Shagarab, che ora ospita oltre 30 mila profughi; lì, volevano fare domanda di asilo politico. I militari sudanesi, invece, li hanno arrestati e, dopo un processo sommario per ingresso illegale, li hanno condannati a un mese di detenzione e 500 sterline sudanesi di ammenda. «Subiscono», racconta don Mussie, «maltrattamenti e condizioni igieniche indicibili, soffrono la fame e la sete, mentre molti si sono ammalati di dissenteria e malaria per aver bevuto acqua sporca e salmastra».

Al termine della pena, hanno pagato la multa grazie a soldi inviati dai parenti all’estero e pensavano di essere finalmente liberi. Invece no: sono state liberate solo le donne, che nel frattempo hanno raggiunto il campo gestito dall’Unhcr a Shagarab, mentre per gli uomini e i ragazzini la detenzione è continuata.

A don Mussie hanno raccontato che alcuni di loro sono stati venduti ai trafficanti di uomini, che chiamano le famiglie per chiedere riscatti, mentre un uomo, chiamato Berhane, sarebbe stato portato in ospedale e ucciso per venderne gli organi. «Addirittura», aggiunge il sacerdote, «mi riferiscono che li obbligano a prendere una medicina per tranquillizzarli e bloccare presunti istinti sessuali».

Ma l’incubo peggiore si è materializzato negli scorsi giorni: alla prigione è arrivato l’ambasciatore eritreo, esponente del regime da cui scappavano. Dopo questa visita sgradita, le guardie hanno detto che il rimpatrio sarebbe questione di ore.

Cosa rischierebbero in patria? «Una prigionia ancora più dura, nelle zone più torride del Paese, nel caso migliore; torture e morte in quello peggiore», è la risposta di don Mussie. «Per il regime», continua, «sono traditori perché disertori del servizio militare e criminali solo perché sono evasi dal carcere in cui la dittatura ha ridotto l’intero Paese. Chi tra di loro poi era già arruolato, rischia la sorte peggiore». In Eritrea, infatti, la coscrizione obbligatoria per gli uomini dura dai 16 ai 60 anni, per le donne fino 50.

Il Paese è militarizzato: dalla fine della guerra per l’indipendenza dall’Etiopia (1993), Isaias Afewerki ha instaurato una delle dittature più repressive del mondo, paragonabile a quella nordcoreana: non ha mai svolto elezioni, non ha una Costituzione e nega le libertà fondamentali. Il dittatore ha militarizzato il Paese: non ci sono più giornali né radio libere, rischia l’arresto chiunque parli male del governo o senta radio o tv straniere. Proprio poche settimane fa, il Consiglio dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite (Hrc) ha istituito una commissione d’inchiesta.

Per questo, 4 mila persone al mese fuggono dal Paese. Aggiunge il sacerdote: «Soprattutto per i ragazzi, è l’unica strada per costruirsi un futuro. Altrimenti, devono sottoporsi al servizio militare a vita, che vuol dire essere obbligati a svolgere lavori forzati. Una schiavitù legalizzata: negli scavi minerari del bassopiano di Gas Barka, per esempio, il regime utilizza questa manodopera gratuita e intasca i soldi delle ditte australiane e canadesi che li finanziano».

Infine, don Mussie lancia un appello alla comunità internazionale: «Il rimpatrio viola la Convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati e dei migranti. Il Sudan, che è un Paese firmatario, deve permettere ai profughi di fare domanda di asilo; l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) deve garantire questa possibilità».

Per rafforzare l’appello, l’Agenzia Habeshia invita tutti a scrivere un’email all’Unhcr (indirizzo: hqpi00@unhcr.org, oggetto: “Rischio deportazione forzata di 200 eritrei”), chiedendo di intervenire immediatamente.

 
 
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