«Ero andato in chiesa per augurargli buon onomastico. Commentammo l’ultimo omicidio della camorra e gli chiesi: “Peppe, che cosa possiamo fare?”. Mi rispose: “Dobbiamo pregare”». Di lì a poco, racconta Augusto Di Meo, testimone oculare dell’omicidio, i cinque colpi di pistola: don Giuseppe Diana, il parroco campano ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994, fu assassinato alle 7.20 del mattino nella sacrestia della sua chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe. Aveva 36 anni e si stava apprestando a celebrare la Messa. Il giorno dopo Giovanni Paolo II ricordò nell’Angelus il «generoso sacerdote, impegnato nel servizio pastorale alla sua gente»: «Sento il bisogno di esprimere il vivo dolore in me suscitato dalla notizia. Voglia il Signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro, evangelico chicco di grano caduto nella terra, produca frutti di piena conversione, di operosa concordia, di solidarietà e di pace».
A 25 anni dall’omicidio anche monsignor Angelo Spinillo, vescovo di Aversa, diocesi a cui apparteneva don Diana, riconosce in lui «una ricchezza che non va dimenticata»: «Ci lascia l’importanza del non nascondersi. Entrando in sacrestia il killer vide due uomini, don Diana e Augusto Di Meo, e chiese “Chi è don Diana?”. A una domanda del genere spesso usiamo rispondere “Perché, che vo’?”. Lui invece annuì: “Sono io”. Don Diana insegna a non nascondersi, nemmeno dinnanzi alle difficoltà».
E di “difficoltà” non ne mancavano negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando nell’Agro Aversano, provincia di Caserta, la camorra la faceva da padrona. Un morto ogni due giorni e l’uccisione del giovane Angelo Riccardo, freddato per errore mentre rientrava da un incontro con i Testimoni di Geova, spinsero don Diana ad alzare la voce. Riprendendo il documento della Conferenza episcopale campana del 1982, scrisse Per amore del mio popolo, un’intensa denuncia contro la camorra, «forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana». Il testo fu sottoscritto dai parroci della forania di Casal di Principe: «Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno», affermarono i sacerdoti. «Con il documento Per amore del mio popolo la denuncia cominciò a essere più radicale e capillare», ricorda Renato Natale, attuale sindaco di Casal di Principe, alla guida della cittadina anche ai tempi dell’omicidio.
In quegli anni don Diana cercava di coinvolgere i giovani in una vita sana, lontana dal malaffare. Capo scout Agesci dal 1978 – e assistente spirituale degli scout Foulards blanc – introdusse in parrocchia i primi Campi scuola: qualche giorno fuori casa, maschi e femmine insieme, per crescere come cristiani e cittadini. Attento ai segnali del territorio, capì che i primissimi immigrati in arrivo dall’Africa potevano facilmente diventare mano d’opera a basso costo per gli interessi della criminalità organizzata: andò a cercarli e con loro costruì una rete umana e sociale. «Era solare, esuberante, un prete felice di annunciare il Vangelo», ricordano i fratelli Marisa ed Emilio. «Capace di stare accanto ai ragazzi e dare loro fiducia», aggiunge Valerio Taglione, scout con don Diana e oggi presidente del Comitato a lui intitolato. Il suo operato e le omelie in cui descriveva senza paura i danni della camorra diventarono sempre più “scomode”. A far traboccare il vaso fu il rifiuto di celebrare in chiesa i funerali di un malavitoso: un “affronto”, che ne decretò definitivamente la morte. Per il suo omicidio sono stati condannati il boss Nunzio De Falco come mandante, Giuseppe Quadrano autore materiale, Mario Santoro e Francesco Piacentini coautori.
Il 21 marzo, primo giorno di primavera, al suo funerale parteciparono in più di 20 mila. Il corteo fu aperto dagli scout, i giovani dell’Azione cattolica e i suoi studenti (insegnava al liceo del seminario e all’istituto tecnico di Aversa), mentre alle finestre vennero appese lenzuola bianche. Di lì a breve inizieranno però le diffamazioni. Don Diana aveva relazioni con le donne, era pedofilo, nascondeva le armi dei clan: le voci che giravano a Casal di Principe, 20 mila abitanti e un contesto di provincia, con il solo scopo di infangarne la memoria e depistare le indagini. Voci puntualmente smentite dagli inquirenti: in secondo grado e poi in Cassazione i giudici esclusero i moventi passionali e confemarono quelli camorristici. Ma le prime insinuazioni lasciarono un lungo strascico di ombre e incomprensioni, e ancora si discute se il parroco di Casal di Principe sia stato un martire, un prete anticamorra, o altro. Don Diana è una figura scomoda, proprio come la voce dei profeti, e la beatificazione oggi non è in vista.
«L’ho proclamato in tutti i modi e prima di morire ci tengo ad affermare ancora, in nome di Dio e della mia coscienza: don Diana è un martire della fede», afferma accorato monsignor Raffaele Nogaro, 86 anni, vescovo emerito di Caserta e padre spirituale del sacerdote campano. Domenica 17 marzo 6 mila scout dell’Agesci sfileranno per le vie di Casal di Principe. Il 19 marzo poi, la manifestazione con le scuole e le autorità, preceduta dalla presentazione del francobollo celebrativo e dalla funzione religiosa: alle 7.30 nella chiesa di San Nicola di Bari il vescovo monsignor Spinillo celebrerà la Messa che don Diana non fece in tempo a officiare.