Nel commentare su questa rivista la conversione di Silvia Romano all’Islam, che tante reazioni e commenti, non sempre rispettosi, ha suscitato, mi ero soffermato sul declino dell’Occidente, tema che emerge anche dall’intervista/testimonianza, che leggiamo sul sito della testata islamica italiana La Luce news. Un primo motivo che viene a confermare la mia chiave di lettura sta nel fatto che la giovane non si è “convertita” dal Cristianesimo all’Islam, ma dall’incredulità giuliva, che caratterizza gran parte delle nostre giovani generazioni, alla religione coranica. Quando infatti dice che l’etica per lei consisteva nella scelta di ciò che la faceva star bene (il benessere psicosomatico, potremmo dire), in fondo esprime una convinzione molto diffusa e non solo fra i giovani. Di qui la necessità di interrogarci su come sia potuto accadere che un Occidente, in molto debitore alla fede cristiana, abbia generato una tale tendenza, che certifica il fallimento pressoché totale dei nostri modelli di evangelizzazione e di pastorale.
Un altro aspetto che mi ha fatto riflettere riguarda la ricerca della misericordia. Quando papa Benedetto si recò ad Erfurt, nel convento agostiniano dove si era formato Lutero, iniziò il suo discorso riproponendo la domanda del monaco riformatore: “Come posso avere un Dio misericordioso?”. E si tratta della domanda di tutti noi. In un primo momento la giovane ritiene quanto le sta accadendo come il risultato di una punizione divina. Questa sua convinzione si aggancia alle domande di senso che pure albergavano nel suo cuore e nella sua mente di fronte al mistero del male e del dolore. Potremmo dire che dall’incredulità si può giungere alla fede passando attraverso l’ateismo tragico, che lotta con Dio, invocando risposte di senso. Particolarmente toccanti i brani delle sure coraniche che l’intervista riporta, in particolare “O Profeta, di’ ai prigionieri che sono nelle vostre mani: se Dio ravvisa un bene nei cuori vostri, vi darà più di quello che vi è stato
preso e vi perdonerà. Dio è perdonatore misericordioso”. Un versetto che dice esserle venuto incontro prima della conversione. Il fatto che questo messaggio di misericordia l’abbia raggiunta attraverso il testo sacro dell’Islam e non, quando ancora era tra noi, attraverso le Scritture sante del Cristianesimo lascia spazio a ulteriori interrogativi. Dice di aver letto la Bibbia e di aver rilevato ciò che le due religioni hanno in comune, ma quale percezione ha ricavato dalle Scritture cristiane? E ancora: qualora avesse scelto e maturato la fede nel Dio di Gesù Cristo, si sarebbe convertita all’Islam?
Certo qui si affaccia anche la legittima domanda circa la libertà e la costrizione, l’autentica capacità di intendere e di volere di chi subisce una situazione di prigionia. Nessuno potrà mai entrare nel sacrario della sua coscienza e nessuno è autorizzato a pronunziare giudizi sul valore della sua scelta. Come anche sappiamo bene che la libertà non è mai assoluta, ma sempre condizionata e limitata dal contesto, tuttavia i contesti non si equivalgono: ci sono situazioni in cui i margini di scelta comprendono la libertà di religione e la libertà di coscienza e contesti che negano questi fondamentali diritti. Va detto con chiarezza, ma con altrettanta attenzione bisogna che incrociamo questo passaggio che ha portato la giovane milanese da un vissuto di indifferenza e di incredulità, attraverso il desiderio e l’opzione di aiutare il prossimo (dimensione orizzontale), alla scoperta della trascendenza (dimensione verticale) del Dio misericordioso. La crisi dell’Occidente emerge infine nella visione della donna, che nell’intervista viene stigmatizzata come puro oggetto e merce di scambio: “Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchin ed offese molto pesanti. C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo”. La propaganda islamista fa leva proprio su questa immagine del corpo femminile, che spesso il cinema e i media in Occidente veicolano, dimenticando tuttavia che la dignità della donna non può consistere solo nel pudore (virtù sempre necessaria), bensì anche nel riconoscimento dei diritti all’educazione, al lavoro, alla parità (come afferma con vigore il documento di Abu Dabi sulla fratellanza sottoscritta da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al- zhar il 4 febbraio del 2019): “È un’indispensabile necessità riconoscere il diritto della donna all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici. Inoltre, si deve lavorare per liberarla dalle pressioni storiche e sociali contrarie ai principi della propria fede e della propria dignità. È necessario anche proteggerla dallo sfruttamento sessuale e dal trattarla come merce o mezzo di piacere o di guadagno economico. Per questo si devono interrompere tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che umiliano la dignità della donna e lavorare per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti”. E qui l’esame di coscienza dovrebbe riguardare tutti da Oriente a Occidente, passando per il medio Oriente. Interpella infine l’espressione che dichiara il velo “simbolo di libertà”. Sappiamo che il simbolo fa pensare e che coglierne il messaggio dipende da colui che lo incrocia e lo contempla, non solo da chi lo esibisce. Un simbolo che venisse imposto e significasse possesso esclusivo della persona sarebbe non solo privo di significato, ma nocivo, un simbolo che indicasse discretamente la necessità del pudore e il desiderio che la propria anima venga incontrata a prescindere dal proprio fisico (mentre non si può escludere la corporeità) può far riflettere come accade nel bel libro di Bruno Nassim Aboudrar, Come il velo è diventato musulmano (Raffaello Cortina ed., Azzate- Varese 2015), dal quale ci raggiunge una domanda: “Ma le donne musulmane che vivono in Paesi occidentali e indossano il velo, sanno davvero ciò che fanno? Perché in realtà, facendo vedere che si nascondono, nascondono che si fanno vedere”. E resta il sospetto che il segno più che libertà stia ad indicare sottomissione.