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mercoledì 16 ottobre 2024
 
IL COMMENTO
 

Don Pino Lorizio: «Sorella morte, tra accanimento terapeutico ed eutanasia»

30/11/2021  Chi decide per chi? "Arrendersi"? Come? A cosa? Quando è omicidio? Quando invece è prevaricazione della tecnica sul naturale spegnersi di un'esistenza? A queste domande sono chiamate a rispondere l’etica e la politica. La riflessione del teologo docente alla Pontificia Università Lateranense

Sul quotidiano La Repubblica di lunedì 29 novembre ho avuto modo di leggere, grazie al suggerimento di una cara amica, un suggestivo articolo di Massimo Recalcati, dal titolo “Donare la morte in omaggio alla vita. Sarebbe troppo facile e sbrigativo liquidare la riflessione dicendo che solo la vita è un dono, mentre la morte non può esserlo in nessun caso. In tal modo si rischia di dimenticare il messaggio della “morte sorella” che promana dai versi di Francesco nel Cantico delle creature, nonché da una pagina dell’epistolario di quell’entusiastico amante della vita che fu Wolfgang Amadeus Mozart e che pure considera “amica” la cupa signora di Samarcanda. Egli nel 1787 così scriveva al padre: «La morte, per essere precisi fino in fondo, è il vero scopo finale della nostra vita, per questo da un paio d’anni a questa parte me la son fatta amica, la considero la migliore amica dell’uomo, tanto che la sua figura non ha per me nulla di orribile, ma ha un aspetto tranquillante, consolante! E ringrazio Dio per avermi concesso l’opportunità di imparare a considerarla come la chiave d’ingresso alla nostra vera beatitudine».

 

Recalcati chiama in causa uno splendido film intitolato Million Dollar Baby (2004) di Clint Eastwood, che offre un adattamento del romanzo Lo sfidante di F. X. Toole. Da questa lettura-visione lo psicanalista trae spunto per porre ancora una volta la domanda inquietante e al tempo stesso fondamentale: «Si può davvero donare la morte?». Ma ciò che maggiormente coinvolge il teologo è il ricorso al Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer. Nel movimento della resa si esprimerebbe una vita pienamente umana. «Infatti, - scrive l’articolista - se la resa senza la prova della resistenza può essere una fuga dalla vita, la resistenza senza la possibilità della resa può diventare un supplizio o un martirio inutile. Ma chi può misurare il giusto rapporto tra la resistenza e la resa? […] La Legge non può imporre la resistenza senza resa - sarebbe questo il cuore folle della filosofia dell’hitlerismo - ma deve servire a consentire il dono della morte di fronte a una esistenza che può dichiarare, dopo il tempo della resistenza, la sua resa. In questo caso la morte rende ancora più sacra la vita perché la riconosce profondamente vulnerabile, fragile, umana».

Non possiamo, come credenti prima e teologi molto dopo, non chiederci di fronte a cosa arrendersi. Mi sembra di poter balbettare, con tutto il rispetto verso i drammi e le tragedie vissute in situazioni per chi sta bene del tutto inimmaginabili, che bisogna vivere la resa di fronte alla tecnocrazia dell’accanimento. La lettura del film-romanzo evocato suggerisce proprio questa interpretazione. E, proprio in tale situazione, ci viene incontro la riflessione del cardinal Carlo Maria Martini, che, al compimento del suo ottantesimo compleanno, scriveva: «La crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un tempo impensabili. Senz’altro il progresso medico è assai positivo. Ma nello stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona. È di grandissima importanza in questo contesto distinguere tra eutanasia e astensione dall’accanimento terapeutico, due termini spesso confusi. La prima si riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte; la seconda consiste nella «rinuncia… [appunto “resa”] all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo» (Compendio Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 471). Evitando l’accanimento terapeutico “non si vuole… procurare la morte: si accetta di non poterla impedire” (Catechismo della Chiesa Cat­tolica, n. 2.278) assumendo così i limiti propri della condizione umana mortale».

Né l’anziano presule si esimeva, in quella circostanza, dall’interpellare il legislatore: «Dal punto di vista giuridico, rimane aperta l’esigenza di elaborare una normativa che, da una parte, consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure - in quanto ritenute sproporzionate dal paziente - dall’altra protegga il medico da eventuali accuse (come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio), senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell’eutanasia. Un’impresa difficile, ma non impossibile: mi dicono che ad esempio la recente legge francese [la legge sui diritti del malato e la fine della vita approvata in Francia nel 2005] in questa materia sembri aver trovato un equilibrio se non perfetto, almeno capace di realizzare un sufficiente consenso in una società pluralista».

I problemi e drammi nascono non tanto allorché il soggetto possa previamente esprimere il suo consenso o dissenso rispetto alle tecnologie cui sottoporre il proprio corpo in caso di grave infermità, bensì nel durante della situazione, che può risultare insopportabile. E qui entra in gioco la questione sul chi decide per chi, ovvero chi si arrende? La possibilità della “resa”, (lo ripetiamo con forza) solo di fronte alla tecnocrazia dell’accanimento, dovrà essere garantita anche in tale circostanza, nelle modalità che una legge dello Stato, e non le sentenze in ambito giudiziario o le espressioni a livello regionale, possa esprimere? E come essere certi che in tal caso non si stia commettendo un vero e proprio omicidio? A queste domande sono chiamate a rispondere l’etica e la politica, con sempre dinanzi a sé il monito “Tu non mi ucciderai!”, scritto, secondo il filosofo Emmanuel Levinas, non su tavole di pietra, ma nello sguardo della vittima.

Per concludere, l’abbraccio della morte-sorella o amica potrà sopraggiungere  solo allorché si sia compreso che, come concludeva Martini, «è soltanto guardando più in alto e più oltre che è possibile valutare l’insieme della nostra esistenza e giudicarla alla luce non di criteri puramente terreni, bensì sotto il mistero della misericordia di Dio e della promessa della vita eterna».

[le citazioni del card. Carlo Maria Martini sono prese da Il Sole 24 ore del 21 gennaio 2007]

 

 
 
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