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lunedì 11 novembre 2024
 
 

Don Sassi a Credere: «Cento anni da festeggiare guardando al futuro»

16/09/2014  Riportiamo un articolo tratto da Credere n.33 nel quale Don Silvio Sassi dettava il ritmo dei festeggiamenti della Famiglia paolina, che quest’anno taglia il traguardo del secolo di vita. «Come diceva don Alberione bisogna guardare avanti. Il futuro? Saper navigare fra libri, riviste e digitale»

Papa Francesco con don Silvio Sassi e don Antonio Rizzolo.
Papa Francesco con don Silvio Sassi e don Antonio Rizzolo.

Nelle Filippine si sono inventati un quiz biblico televisivo. In Messico e Brasile hanno dato vita a a due Facoltà di studi in comunicazione. In India e Filippine centri di educazione alla comunicazione. Non solo riviste e libri per la Società San Paolo, nata con il compito di «evangelizzare attraverso la comunicazione». I “Paolini”, come sono conosciuti in Italia, il 20 agosto festeggeranno i cento anni di fondazione. Un migliaio di religiosi, sacerdoti e laici consacrati, diffusi in 39 nazioni nei cinque continenti, con la presenza più numerosa in Italia (240 membri), dove però si registra l’età media più alta (71,5 anni), mentre le leve più giovani vengono da Asia, Africa e America latina. Con don Silvio Sassi, da dieci anni comunicazione. Don Alberione, già nel 1914, si era reso conto che la parrocchia alla guida della Società (il suo secondo mandato scadrà nel maggio 2016), tentiamo un bilancio del triennio di preparazione al centenario, in relazione alle sfide future che attendono i Paolini in tutto il mondo. «Storicamente, si tratta del centenario di fondazione della Società San Paolo, secondo la data fissata da don Alberione, il 20 agosto 1914. Lo stesso fondatore, però, nei decenni successivi ha voluto celebrare questa come la data di nascita dell’intera Famiglia paolina. Così, insieme alle altre quattro congregazioni paoline femminili, i quattro istituti aggregati alla Società San Paolo e l’associazione Cooperatori paolini, abbiamo vissuto un triennio di preparazione fatto di celebrazioni comuni e di momenti di riflessione».

Come sintetizzerebbe la preparazione al centenario in tre parole?
«Con le parole che definiscono lo stile di Alberione. Quando ha festeggiato gli anniversari dei 40 e poi dei 50 anni, per prima cosa ha detto che bisognava celebrare, ringraziare Dio per l’immensa provvidenza verso di noi. Poi verificare se siamo stati sempre fedeli. Infine invocare lo Spirito perché ci aiuti a pensare il futuro. Con lo stile di don Alberione, i giubilei sono “celebrazioni in piedi”. Il nostro fondatore era un uomo che non amava guardare indietro. Anche quando ha scritto Abundantes divitiæ gratiæ suæ in occasione del 40° di fondazione, che per noi è il testo più importante, diceva che non c’era motivo di scrivere del passato, ma bisognava fare le cose nel presente e pensare alle future, protendersi sempre in avanti».

- Il carisma paolino: come attualizzarlo oggi?
«Nella sua versione più semplificata e nota, il carisma paolino dice che si può portare il Vangelo non solo in un contesto parrocchiale, con la predicazione orale, ma attraverso tutte le forme di comunicazione. Don Alberione, già nel 1914 si era reso conto che la parrocchia non bastava più a raggiungere tutta la gente che non va in chiesa. Il nostro è un carisma che va nella piazza, dove vive la gente, non resta in sacrestia. Una “nuova evangelizzazione”, insomma. Don Alberione non è stato il primo a pensare di mettere la stampa a servizio dell’evangelizzazione. C’era una Società San Paolo già prima di noi (nata nel 1875) che stampava testi religiosi. L’originalità di don Alberione è nell’intuizione che non si tratta solo di mettere sul mercato dei prodotti che hanno dei buoni contenuti religiosi, ma occorre comunicare la totalità della fede: un’evangelizzazione completa e ben articolata».

- Oggi come si declina tutto questo?
«Nei suoi contenuti centrali questo carisma resta. Don Alberione non ha voluto creare una casa editrice cattolica in più, ma un insieme di persone che vivessero e proponessero il Vangelo attraverso la stampa e gli altri mezzi di comunicazione. Non dobbiamo essere degli “impiegati del sacro”, ma dei testimoni di un’esperienza di fede. È chiaro che in alcuni aspetti la visione di Alberione è figlia del suo tempo. Per esempio parlava di autarchia, vale a dire che chi scrive, chi stampa e chi diffonde deve essere una persona consacrata, una convinzione che oggi non è proponibile alla luce dell’ecclesiologia del Vaticano II e del numero dei membri paolini. Ma resta il cuore della sua intuizione: non siamo venditori di un prodotto qualsiasi, ma siamo testimoni del Vangelo. Un paolino, nella mente di don Alberione, usa come unico strumento di testimonianza della sua fede la comunicazione».

-In Italia sono nate ultimamente tante riviste che si occupano di cose religiose. Qual è la differenza rispetto alle riviste paoline?
«Lo stile dovrebbe essere diverso. Faccio una premessa: noi Paolini abbiamo un quarto voto di fedeltà al Papa per quanto riguarda la nostra missione. I Papi hanno avuto la parola definitiva sulla nascita della nostra Congregazione, vincendo anche numerose resistenze della Curia vaticana. Questa fedeltà deve manifestarsi anche nel nostro giornalismo. Se noi scriviamo per esempio di Francesco, rispondiamo alla legittima curiosità delle gente su questo aneddoto o su quel particolare che fa notizia perché insolito, ma dovremmo riuscire a spiegare le cose che dice oltre quelle che fa, e che ci impegnano come Chiesa. I media studiano il Papa e sanno prendere dalla sua spontaneità quelle cose che fanno notizia dal loro punto di vista. Ma attenzione: Francesco è uno stile di vita e di fede, non sono solo bei gesti. Francesco, a mio avviso, è un Papa che richiama molto Paolo VI, forse non nel tratto immediato, ma nelle convinzioni: uno stile attento alle persone, di dialogo, di ascolto, un’affermazione non violenta della verità, il cercare di capire le esigenze della fede e quelle della vita concreta... È uno stile di pensiero fatto azione, un concilio Vaticano II in atto. Un’energia positiva per la Chiesa e la società».

- Francesco lo incontrerete alla fine delle celebrazioni del centenario. Quali sono stati gli eventi più importanti?
«Il centenario si è celebrato in tutte le 39 nazioni dei cinque continenti in cui siamo presenti e il 20 agosto si farà una celebrazione festiva dappertutto. In Italia quest’anno abbiamo trasportato il beato Timoteo Giaccardo (il primo beato paolino, ndr) da Roma ad Alba. Un evento che dice molto alla Famiglia paolina, perché è un atto di riconoscenza alla casa madre da dove è siamo partiti e al primo sacerdote giornalista paolino. Ma sono tante le iniziative in corso: a ottobre ad Alba ci sarà una rappresentazione teatrale tratta da Abundantes divitiæ gratiæ suæ; poi abbiamo realizzato un documentario sui cento anni, riscritto una biografia di don Alberione che sarà libro fotografico e digitale; infine ripreso i primi numeri dell’Unione cooperatori buona stampa, in copia anastatica, dove ci sono le parole del fondatore nei primi anni: è per noi come bere alla sorgente. L’udienza dal Papa sarà interessante per poter riaffermare il nostro carisma, ci sarà tutta la Famiglia paolina. Nel saluto iniziale a papa Francesco sarà ripetuta l’evidenza che esistono i poveri anche nella comunicazione: non solo quelli che non hanno la possibilità di comunicare, ma anche quelli che comunicano alla ricerca di qualcosa di spirituale. Il fondatore diceva giustamente: “Arriverà un giorno in cui alla porta dei conventi non daranno un pezzo di pane ma una rivista...”. C’è un popolo della comunicazione che ha diritto di imbattersi in Dio».

- Il Papa, incontrando i superiori generali di tutti i religiosi, ha posto alcune domande centrali per i consacrati: come conciliare vita apostolica e vita comunitaria? Come vincere la tentazione dell’individualismo?
«Anche per noi Paolini il vero pericolo è separare l’esperienza spirituale dall’attività apostolica. La preghiera del paolino, ci diceva Alberione, è sempre in comune con i nostri destinatari. Il paolino che prega non è mai solo: nella sua preghiera c’è il pubblico che vuole evangelizzare. Se non c’è osmosi tra contemplazione e azione, è tutto inutile. Non possiamo essere atei e scrivere di cose religiose: questo vuol dire produrre oggetti che si occupano del sacro, non essere testimoni. Il lavoro può essere così assorbente che può dare la sensazione di riuscire, anche senza fermarsi a pregare. Ma l’esperienza dimostra che un paolino che non prega diventa inutile e dannoso a se stesso e agli altri, una mina vagante. Il paolino è fatto così, dà quello che ha. E a volte si vede la sua ricchezza interiore, a volte tutta la sua povertà».

- Lei come ha vissuto questo centenario?
«Il superiore generale, anche se indegnamente, è il successore di don Alberione. È una grazia e una responsabilità. Mi ha sempre molto colpito il suo impegno a guardare avanti. Il 20 agosto del 1964, per l’anniversario, disse: “Cinquantesimo! È da paragonarsi all’esordio di un discorso: ora lo sviluppo in sicurezza”. Ecco, la memoria deve produrre futuro, non ci si può sedere sulle gesta del passato».

- E lei che cosa vede per il futuro della San Paolo?
«Innanzitutto un forte spostamento, anche nel modo di pensare il carisma, dall’Europa agli altri continenti, tenendo conto della gioventù che chiede di farsi paolino in Asia, Africa e America latina. Sarà sempre meno europeo, anche per come viene espresso. Don Alberione, quando mandava in giro i Paolini per le prime fondazioni, dava come programma: “Fate come si fa in Alba”. Un’espressione che oggi fa sorridere: a quel tempo è servita per cominciare; attualmente ci dice che bisogna internazionalizzare il carisma rispettando le radici. Inoltre la sensibilità per attualizzare il carisma a breve sarà diversa, perché in Europa si alza l’età media: in prospettiva bisogna valorizzare l’esperienza degli anziani ma anche la creatività dei giovani. Infine, come congregazione, non possiamo dismettere un’attività che facciamo piuttosto bene – parlo di libri e riviste – per passare a un’attività completamente gratuita come può essere la presenza del mondo digitale. Uno dei grandi problemi di questi anni è, e sarà, gestire insieme la comunicazione dei media tradizionali e quella dei media digitali. Far convivere le due forme di comunicazione per evangelizzare vuol dire preparare persone che hanno una formazione completamente diversa. Non possiamo permetterci scossoni improvvisi, abbiamo delle responsabilità verso le persone che lavorano con noi e dei doveri verso le Chiese locali. Soltanto le necessità di sopravvivenza possono far prendere decisioni drastiche. Non c’è bisogno di rivoluzioni, ma di un’evoluzione, di un cambiamento nella continuità».

 
 
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