Papa Francesco con don Silvio Sassi e don Antonio Rizzolo.
Nelle Filippine si sono inventati
un quiz biblico televisivo.
In Messico e Brasile
hanno dato vita a a due Facoltà
di studi in comunicazione.
In India e Filippine centri di educazione
alla comunicazione. Non solo
riviste e libri per la Società San Paolo,
nata con il compito di «evangelizzare attraverso
la comunicazione».
I “Paolini”, come sono conosciuti in
Italia, il 20 agosto festeggeranno i cento
anni di fondazione. Un migliaio di religiosi,
sacerdoti e laici consacrati, diffusi
in 39 nazioni nei cinque continenti,
con la presenza più numerosa in Italia
(240 membri), dove però si registra l’età
media più alta (71,5 anni), mentre le leve
più giovani vengono da Asia, Africa e
America latina. Con don Silvio Sassi, da dieci anni
comunicazione. Don Alberione, già nel
1914, si era reso conto che la parrocchia
alla guida della Società (il suo secondo
mandato scadrà nel maggio 2016), tentiamo
un bilancio del triennio di preparazione
al centenario, in relazione alle
sfide future che attendono i Paolini in
tutto il mondo. «Storicamente, si tratta
del centenario di fondazione della Società
San Paolo, secondo la data fissata
da don Alberione, il 20 agosto 1914.
Lo stesso fondatore, però, nei decenni
successivi ha voluto celebrare questa
come la data di nascita dell’intera Famiglia
paolina. Così, insieme alle altre
quattro congregazioni paoline femminili,
i quattro istituti aggregati alla Società
San Paolo e l’associazione Cooperatori
paolini, abbiamo vissuto un triennio di
preparazione fatto di celebrazioni comuni
e di momenti di riflessione».
Come sintetizzerebbe la preparazione
al centenario in tre parole?
«Con le parole che definiscono lo
stile di Alberione. Quando ha festeggiato
gli anniversari dei 40 e poi dei 50 anni,
per prima cosa ha detto che bisognava
celebrare, ringraziare Dio per l’immensa
provvidenza verso di noi. Poi verificare
se siamo stati sempre fedeli. Infine invocare
lo Spirito perché ci aiuti a pensare
il futuro. Con lo stile di don Alberione,
i giubilei sono “celebrazioni in piedi”. Il
nostro fondatore era un uomo che non
amava guardare indietro. Anche quando
ha scritto Abundantes divitiæ gratiæ
suæ in occasione del 40° di fondazione,
che per noi è il testo più importante, diceva
che non c’era motivo di scrivere del
passato, ma bisognava fare le cose nel
presente e pensare alle future, protendersi
sempre in avanti».
- Il carisma paolino: come attualizzarlo
oggi?
«Nella sua versione più semplificata
e nota, il carisma paolino dice che si può
portare il Vangelo non solo in un contesto
parrocchiale, con la predicazione
orale, ma attraverso tutte le forme di comunicazione. Don Alberione, già nel 1914 si era reso conto che la parrocchia non bastava più a raggiungere tutta la
gente che non va in chiesa. Il nostro è un
carisma che va nella piazza, dove vive la
gente, non resta in sacrestia. Una “nuova
evangelizzazione”, insomma. Don Alberione
non è stato il primo a pensare di
mettere la stampa a servizio dell’evangelizzazione.
C’era una Società San Paolo
già prima di noi (nata nel 1875) che
stampava testi religiosi. L’originalità di
don Alberione è nell’intuizione che non
si tratta solo di mettere sul mercato dei
prodotti che hanno dei buoni contenuti
religiosi, ma occorre comunicare la
totalità della fede: un’evangelizzazione
completa e ben articolata».
- Oggi come si declina tutto questo?
«Nei suoi contenuti centrali questo
carisma resta. Don Alberione non
ha voluto creare una casa editrice cattolica
in più, ma un insieme di persone
che vivessero e proponessero il Vangelo
attraverso la stampa e gli altri mezzi
di comunicazione. Non dobbiamo essere
degli “impiegati del sacro”, ma dei
testimoni di un’esperienza di fede. È chiaro che in alcuni aspetti la visione
di Alberione è figlia del suo tempo.
Per esempio parlava di autarchia, vale a
dire che chi scrive, chi stampa e chi diffonde
deve essere una persona consacrata,
una convinzione che oggi non è
proponibile alla luce dell’ecclesiologia
del Vaticano II e del numero dei membri
paolini. Ma resta il cuore della sua
intuizione: non siamo venditori di un
prodotto qualsiasi, ma siamo testimoni
del Vangelo. Un paolino, nella mente
di don Alberione, usa come unico strumento
di testimonianza della sua fede
la comunicazione».
-In Italia sono nate ultimamente
tante riviste che si occupano di cose
religiose. Qual è la differenza rispetto
alle riviste paoline?
«Lo stile dovrebbe essere diverso.
Faccio una premessa: noi Paolini abbiamo
un quarto voto di fedeltà al Papa per
quanto riguarda la nostra missione. I Papi
hanno avuto la parola definitiva sulla
nascita della nostra Congregazione,
vincendo anche numerose resistenze
della Curia vaticana. Questa fedeltà deve
manifestarsi anche nel nostro giornalismo.
Se noi scriviamo per esempio
di Francesco, rispondiamo alla legittima
curiosità delle gente su questo aneddoto
o su quel particolare che fa notizia
perché insolito, ma dovremmo riuscire
a spiegare le cose che dice oltre quelle
che fa, e che ci impegnano come Chiesa.
I media studiano il Papa e sanno prendere
dalla sua spontaneità quelle cose
che fanno notizia dal loro punto di vista.
Ma attenzione: Francesco è uno stile di
vita e di fede, non sono solo bei gesti.
Francesco, a mio avviso, è un Papa che
richiama molto Paolo VI, forse non nel
tratto immediato, ma nelle convinzioni:
uno stile attento alle persone, di dialogo,
di ascolto, un’affermazione non violenta
della verità, il cercare di capire le esigenze
della fede e quelle della vita concreta...
È uno stile di pensiero fatto azione,
un concilio Vaticano II in atto. Un’energia
positiva per la Chiesa e la società».
- Francesco lo incontrerete alla fine delle celebrazioni del centenario. Quali sono stati gli eventi
più importanti?
«Il centenario si è celebrato in tutte
le 39 nazioni dei cinque continenti in
cui siamo presenti e il 20 agosto si farà
una celebrazione festiva dappertutto. In
Italia quest’anno abbiamo trasportato il
beato Timoteo Giaccardo (il primo beato
paolino, ndr) da Roma ad Alba. Un
evento che dice molto alla Famiglia paolina,
perché è un atto di riconoscenza
alla casa madre da dove è siamo partiti
e al primo sacerdote giornalista paolino.
Ma sono tante le iniziative in corso:
a ottobre ad Alba ci sarà una rappresentazione
teatrale tratta da Abundantes divitiæ
gratiæ suæ; poi abbiamo realizzato
un documentario sui cento anni, riscritto
una biografia di don Alberione che
sarà libro fotografico e digitale; infine
ripreso i primi numeri dell’Unione cooperatori
buona stampa, in copia anastatica,
dove ci sono le parole del fondatore
nei primi anni: è per noi come bere alla
sorgente. L’udienza dal Papa sarà interessante
per poter riaffermare il nostro
carisma, ci sarà tutta la Famiglia paolina.
Nel saluto iniziale a papa Francesco sarà
ripetuta l’evidenza che esistono i poveri
anche nella comunicazione: non solo
quelli che non hanno la possibilità di
comunicare, ma anche quelli che comunicano
alla ricerca di qualcosa di spirituale.
Il fondatore diceva giustamente:
“Arriverà un giorno in cui alla porta dei
conventi non daranno un pezzo di pane
ma una rivista...”. C’è un popolo della
comunicazione che ha diritto di imbattersi
in Dio».
- Il Papa, incontrando i superiori
generali di tutti i religiosi, ha posto
alcune domande centrali per i consacrati:
come conciliare vita apostolica
e vita comunitaria? Come vincere la
tentazione dell’individualismo?
«Anche per noi Paolini il vero pericolo
è separare l’esperienza spirituale
dall’attività apostolica. La preghiera del
paolino, ci diceva Alberione, è sempre in
comune con i nostri destinatari. Il paolino
che prega non è mai solo: nella sua
preghiera c’è il pubblico che vuole evangelizzare. Se non c’è osmosi tra
contemplazione e azione, è tutto inutile.
Non possiamo essere atei e scrivere di
cose religiose: questo vuol dire produrre
oggetti che si occupano del sacro, non
essere testimoni. Il lavoro può essere così
assorbente che può dare la sensazione
di riuscire, anche senza fermarsi a pregare.
Ma l’esperienza dimostra che un
paolino che non prega diventa inutile e
dannoso a se stesso e agli altri, una mina
vagante. Il paolino è fatto così, dà quello
che ha. E a volte si vede la sua ricchezza
interiore, a volte tutta la sua povertà».
- Lei come ha vissuto questo
centenario?
«Il superiore generale, anche se indegnamente,
è il successore di don Alberione.
È una grazia e una responsabilità.
Mi ha sempre molto colpito il suo impegno a guardare avanti. Il 20 agosto
del 1964, per l’anniversario, disse: “Cinquantesimo!
È da paragonarsi all’esordio
di un discorso: ora lo sviluppo in
sicurezza”. Ecco, la memoria deve produrre
futuro, non ci si può sedere sulle
gesta del passato».
- E lei che cosa vede per il futuro
della San Paolo?
«Innanzitutto un forte spostamento,
anche nel modo di pensare il carisma,
dall’Europa agli altri continenti, tenendo
conto della gioventù che chiede
di farsi paolino in Asia, Africa e America
latina. Sarà sempre meno europeo, anche
per come viene espresso. Don Alberione,
quando mandava in giro i Paolini
per le prime fondazioni, dava come
programma: “Fate come si fa in Alba”.
Un’espressione che oggi fa sorridere:
a quel tempo è servita per cominciare;
attualmente ci dice che bisogna internazionalizzare
il carisma rispettando le
radici. Inoltre la sensibilità per attualizzare
il carisma a breve sarà diversa, perché
in Europa si alza l’età media: in prospettiva
bisogna valorizzare l’esperienza
degli anziani ma anche la creatività dei
giovani. Infine, come congregazione,
non possiamo dismettere un’attività
che facciamo piuttosto bene – parlo di
libri e riviste – per passare a un’attività
completamente gratuita come può essere
la presenza del mondo digitale. Uno
dei grandi problemi di questi anni è, e
sarà, gestire insieme la comunicazione
dei media tradizionali e quella dei media
digitali. Far convivere le due forme
di comunicazione per evangelizzare
vuol dire preparare persone che hanno
una formazione completamente diversa.
Non possiamo permetterci scossoni
improvvisi, abbiamo delle responsabilità
verso le persone che lavorano con
noi e dei doveri verso le Chiese locali.
Soltanto le necessità di sopravvivenza
possono far prendere decisioni drastiche.
Non c’è bisogno di rivoluzioni, ma
di un’evoluzione, di un cambiamento
nella continuità».