Al centro, mons. Vito Angiuli e Renato Brucoli durante una presentazione del volume
C’è il don Tonino che chiede al suo vescovo, Giuseppe Ruotolo, di rinunciare all’incarico onorifico di monsignore di sua Santità e quello che ne luglio 1978 scrive all’arcivescovo di Taranto, Guglielmo Motolese, per rinunciare a diventare rettore del seminario liceale di Taranto non per fuggire dalle responsabilità ma per continuare l’esperienza in parrocchia nella sua diocesi d’origine, Ugento – Santa Maria di Leuca, dove è nato e dove ora – nel piccolo cimitero di Alessano divenuto meta di incessanti pellegrinaggi – è sepolto. Ci sono diari, articoli, cronache e omelie occasionali che svelano il tratto più autentico di don Tonino Bello nel periodo in cui era seminarista e poi giovane prete nella sua terra natale, il Salento.
Vito Angiuli, vescovo della diocesi di Ugento – Santa Maria di Leuca e profondo studioso dell’opera di don Tonino, in un bel volume edito da Ed insieme (La terra dei miei sogni, Bagliori di luce dagli scritti ugentini) ha raccolto, insieme a Renato Brucoli, l’opera omnia degli scritti editi ed inediti composti da mons. Bello tra il 1954, quand’era un giovane seminarista, e il 1982, anno dell’elezione episcopale. «Dimostrano», spiega Angiuli, «che nella vita di don Tonino non c’è un prima e un poi ma una continuità di prospettive e di ideali nel vivere il Vangelo». Mons. Angiuli è anche autore del libro Don Tonino Bello visto da vicino (San Paolo) nel quale rievoca il rapporto con il vescovo di Molfetta.
La copertina del libro di mons. Vito Angiuli
Perché don Tonino Bello è un sognatore che lei accosta ai grandi
santi della chiesa e a figure laiche come Einstein, Gandhi, Martin
Luther King?
«Non
sono io a qualificare don Tonino come un sognatore, ma è lui stesso.
Basta leggere i due diari riportati nel libro per comprendere che ci
troviamo di fronte a una persona che non ha mai smesso di
“meravigliarsi” e di guardare la realtà e le persone con occhi
trasognati. Come altro si dovrebbe definire una persona che dice di
se stesso: «Sono un polpettone di carne e di spirito, di passioni
indomite e di mistiche elevazioni, di ardimenti coraggiosi e di
depressioni senza conforto» (p. 86)?».
Qual
era il sogno di don Tonino? E in che modo è legato alla sua terra
natale?
«Gli
“scritti ugentini” individuano chiaramente il “sogno” di don
Tonino, maturato nella sua terra e vissuto anche oltre: il sogno di
una fede che si incarna (p. 197); il sogno della comunione ecclesiale
e dei legami con Dio, con i fratelli di fede, con i lontani; il sogno
di una Chiesa che si fa missionaria (p. 394); il sogno della famiglia
umana che vive nella giustizia, nella pace, nel servizio ai poveri;
il sogno di “cieli nuovi e terra nuova” (2Pt 3,13) che fa
germoglia una nuova primavera. Se si legge la descrizione che egli fa
della sua terra (si vedano, ad esempio, le pagine 58-61 dei diari)
si comprende che per lui la sua è “una terra da sogno”».
Dagli
scritti del periodo vissuto nella sua terra natale qual è lo stile e
la cifra spirituale che emerge di lui?
«Anche
in queste caso, la lettura dei diari è illuminante. Da quelle pagine
emerge la sua statura spirituale: il desiderio di Dio, l’amore a
Cristo, la scoperta della devozione alla Madonna. Le cito solo tre
frasi: «Dio mio; come vorrei piangere e piangere per dirti con le
lacrime che ti voglio bene, che ho fame e sete di te. Quanta poca
gloria ti hanno cantato questi miei 25 anni di vita?» (p. 46); «È
tanto bello assaporare l’ebbrezza della Grazia di Dio, che ogni
letizia, in confronto, è zero» (p. 54); «Signore Gesù, dammi
forza: non mi lasciare solo, amico mio. Stammi vicino sempre, nel
cuore, nell’angolo più riposto e solitario dell’anima. Fammi
respirare il tuo respiro, battere con tuo cuore, vivere la tua vita.
Teniamoci per mano, Gesù, come due scolaretti che vanno in fila
contenti» (p. 63)».
Seminario di Molfetta, don Tonino Bello insieme a mons. Vito Angiuli e al cardinale Joseph Ratzinger
C’è
un'occasione o un episodio particolare che l’ha più colpita da
questi scritti?
«Non
è facile operare una scelta tra i suoi scritti. Se proprio devo
indicarne qualcuno citerei l’omelia per i martiri di Otranto (pp.
533- 544) e la descrizione del suo Vescovo: mons. Giuseppe Ruotolo
(pp. 545-557). L’omelia attualizza un fatto del passato alla nostra
realtà contemporanea. In alcuni passaggi, sembra di udire la voce di
san Giovanni Paolo II. Così scrive don Tonino: «Non abbiate paura!
Se la paura bussa alla tua porta, manda ad aprire la tua fede, la tua
speranza, la tua carità, ti accorgerai che fuori non c’è nessuno.
Allora coraggio carissimi fratelli!» (p. 543). Il vescovo, poi, è
descritto come un “vescovo fatto popolo”, ideale che ha animato
lo stile pastorale di don Tonino».
Nel
volume lei scrive che don Tonino nella sua vita ha provato “il
tradimento dei chierici”. Cosa significa?
«Il
tradimento si è perpetuato e si continua a perpetuare in due
direzioni. C’è chi si compiace di ripetere le sue parole senza
compiere i suoi gesti. Ed anche quando si sforza di compierli, lo fa
per puro umanitarismo. In don Tonino, invece, è impossibile scindere
parola, gesti e convinzioni di fede. Don Tonino non è un prodotto
della “cultura postmoderna”, ma un testimone della fede e della
carità cristiana. C’è poi chi, consapevolmente o
inconsapevolmente, scinde l’aspetto sociale da quello etico. Don
Tonino viene esaltato come “profeta di pace, di giustizia, di amore
ai poveri”, ma nulla si dice della sua strenua difesa della vita
umana. Le pagine di questo libro presentano a chiare lettere il suo
impegno contro il divorzio (219-225 ) e contro l’aborto (cfr. pp.
325-331). Contro il divorzio afferma: “È una frattura. È un
regresso. È una involuzione. È lo sgretolarsi di un edificio. È il
frantumarsi di una scultura. È l’inaridirsi di uno stelo” (p.
223). Contro l’aborto rileva che “è veramente strano e
paradossale che oggi la nostra società si batta con tanto calore per
il rispetto della vita al punto da abolire la pena di morte… sia in
pieno svolgimento la campagna contro l’ergastolo… e si sostenga
poi la soppressione in massa di vite umane” (p. 326). Chiedo ai
“chierici del nostro tempo”, volete continuare a perpetuare il
vostro tradimento?».
Nell’omelia
di commiato dai suoi parrocchiani di Tricase scriveva: “A
cosa servono i discorsi? Serve la vita, serve l’impegno, serve
l’amore, serve anche la sofferenza offerta al Signore”.
Cosa
resta oggi di don Tonino a 22 anni dalla sua morte?
«Molte cose che, per certi versi,
somigliano a quanto insegna papa Francesco. Richiamo alcuni aspetti:
il substrato conciliare del suo pensiero e del suo impegno di
testimonianza; l’unità tra gesti e parole (verbis
gestisque);
la passione per la vita; l’amore per i giovani e i poveri. In un
tempo, come il nostro, contrassegnato dal disincanto, dalle “passioni
tristi”, dall’individualismo e dal nichilismo, i valori
testimoniati da don Tonino le sembrano cose di poco conto? In una
società a capitalismo avanzato che produce povertà, frammentazione
e guerre il suo richiamo a “farsi prossimo” non è un sapiente
antidoto alla catastrofe sociale? In un contesto comunicativo che
adotta prevalentemente un linguaggio virtuale e mass mediale nel
quale le parole perdono il loro valore, la sua capacità di creare un
linguaggio nuovo che diventa “lingua comune” per credenti e non
credenti non è l’inizio dell’avverarsi del suo sogno?».