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Don Virginio Colmegna: «La mia Europa bella e possibile»

08/11/2018  Il sacerdote è stato premiato dal parlamento di Strasburgo. «Le paure della gente sono una cosa seria», dice il presidente della Casa della Carità. «Per questo è necessario ripartire dalle persone e dai loro sentimenti per costruire un progetto di fraternità»

È chiedere all’Amore di abitare l’Europa. Questo è il senso profondo del premio consegnato a don Virginio Colmegna, 73 anni, da 15 anni presidente della Casa della Carità a Milano, eletto Cittadino europeo 2018. Una cittadinanza onoraria che ribadisce un’esigenza diffusa di senso, un premio a un uomo che ha fatto dell’accoglienza la cifra del suo magistero, della vicinanza all’altro la sua testimonianza. Lui che è stato educato al sentimento della dignità degli ultimi e alla cura della bellezza dalla madre: «Eravamo gente umile, ma in casa passava sempre la cera e si poteva entrare solo con le pattine»; lui che vive un legame profondo con il Vangelo, crede nell’amicizia tra le persone e con i poveri «perché l’amicizia impegna», e che alla definizione di “prete di strada” preferisce quella di prete di comunità, ovvero di legami.

Viaggiamo con don Virginio sul treno che lo conduce a Firenze per un progetto di Casa della salute, l’ennesimo atto di misericordia verso la persona. Trova così il tempo per condividere la sua gioia, guardandoci negli occhi com’è nel suo stile. «Un riconoscimento che va agli ospiti, volontari e operatori della Casa, che stanno realizzando una realtà dove la quotidianità appartiene a loro», dice. «Una gioia che viene dal sentire redivive le radici di un’Europa di pace, radici legate indissolubilmente alla solidarietà».

«Prima le persone», ha detto ricevendo il riconoscimento. Davvero lo dobbiamo ribadire?

«Noi lo abbiamo messo addirittura sul muro della Casa. La cultura quantitativa sta distruggendo quella qualitativa, non c’è più spazio per la tensione spirituale e per i sentimenti. Nel suo primo viaggio apostolico a Lampedusa Francesco ha detto “Lasciateci piangere”. Questo è uno degli elementi che deve caratterizzare l’Europa, nel rispetto e nel recupero della propria storia e memoria. Partecipi, tutti e 28 i Paesi, all’unico progetto della fraternità e dell’umanità, evitando così un preoccupante vuoto di civiltà».

L’arcivescovo Dionigi Tettamanzi diceva che i diritti dei deboli non sono diritti deboli.

«E il cardinale Carlo Maria Martini parlava di amicizia civica, ovvero della capacità di tenere legami tra le persone che nascono solo se c’è una cultura di amicizia, non dove ci sono rancore ed egoismo. Lì dobbiamo tornare. A Milano stiamo vivendo il “Sinodo dalle genti”. È necessario rendersi conto che la carità produce legami di appartenenza. O, come diceva Martini, riempie la giustizia e la spinge anche dove non c’è utilità sociale».

Un’Europa che premia il suo impegno e che, tuttavia, alza muri, erige reticolati, da Ceuta all’Ungheria.

«Non bisogna stare zitti. Io la chiamo “obiezione di coscienza culturale”, una sorta di disobbedienza civile per affermare la dignità delle persone. Che permette continuamente la ricostruzione di una sfida educativa, di fare una narrazione diversa sull’immigrazione e sull’umanità, sui sentimenti di dialogo, misericordia, pace e mitezza. Tutte parole che vengono messe nella retorica dei buoni sentimenti e, invece, sono motore di energia sociale. Bontà, e non buonismo, che chiede di essere intelligenti e sapienti e indica la strada per lo sviluppo della società».

L’anima dell’Europa: Macron e Merkel o Orbán, Salvini e Le Pen?

«Pur nelle rispettive differenze certamente tra loro non c’è nessun ideale, ma solo una mentalità di muri incapace di cogliere i cambiamenti. Quello che mi preoccupa è la paura della gente, che è una cosa seria. Ecco allora l’importanza della cultura della mitezza che apre alla ricerca; e del dubbio che fa rimettere al centro delle nostre strategie l’esperienza. Il mio compito non è scegliere politicamente uno o quell’altro, ma far sì che la politica sia animata da una cultura di fraternità e giustizia sociale. Io dico: non lasciamoci rubare la speranza! Soprattutto i giovani, che non sono il futuro ma sono il presente e girano l’Europa, devono reagire a questa mentalità chiusa e soffocante. La sfida europea è importante sul piano culturale e li riguarda: a loro trovare il modo di fare una politica che reagisca alla semplificazione e banalizzazione».

Un’Europa di cui abbiamo bisogno. Bella e impossibile?

«Sogno un’Europa bella e possibile, che dia speranza. Bisogna lavorare molto. Vedo una cultura rassegnata, ma chi parte dai poveri non se lo può permettere, anzi, deve trovare tutte le energie possibili. Io per primo alla mia età, io che trasformo la parola emergenza in urgenza. San Paolo diceva: "La parola carità urge in me". Noi non siamo assistenzialisti, ma promotori di legalità che cresce se cresce una coscienza comunitaria di appartenenza. Questo è il momento del grande slancio».

Per costruire ponti e non muri?

«Sì, come dice Francesco. Che richiama a quella gioia che non è un sentimento astratto, ma la voglia di uno sguardo diverso. Martini, profeticamente, quando lanciò la Casa della Carità non la mise nel capitolo “Milano e i poveri”, ma in “Uno sguardo sulla città”. Questo deve fare l’Europa: guardare dal punto di vista delle fragilità; fare i conti con i limiti e ripartire da lì per costruire istituzioni che diano fiducia».

Oltre il Trattato di Dublino?

«Oltre Dublino, consapevole che l’Europa è una, con politiche migratorie condivise. Partendo dall’accoglienza per costruire diritti e capendo che il fenomeno migratorio non è un’emergenza, ma è strutturale. Ecco allora che bisogna attrezzarsi: accogliere e costruire percorsi di legalità e inserimento ».

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