Nella biblioteca del professor
Donato Firrao spicca un’edizione
dell’Iliade. Lui nota
il nostro interesse e butta lì:
«In quel libro è descritto il
primo esempio di frattura
tra metalli della nostra civiltà: quando
Menelao colpisce con la sua spada
l’elmo di Paride, ma l’arma si spezza
in tre o quattro pezzi».
Se fosse vissuto ai tempi di Omero,
sicuramente il professor Firrao
sarebbe riuscito a capire perché la
spada tradì Menelao. È infatti uno dei
migliori esperti in frattografia, lo studio
delle cause per cui un metallo si
frantuma, e questa competenza gli ha
consentito di fare luce su alcuni tra i
più grandi misteri della storia italiana,
dal delitto Mattei alla strage di Ustica.
Ci troviamo al Collegio universitario
Einaudi di Torino, struttura che
l’ingegner Firrao dirige da 22 anni,
mentre per 53 ha insegnato al Politecnico
della stessa città. Nella selva di
calcoli e grafici incomprensibili che
scorrono sul computer dell’ingegnere,
all’improvviso appaiono alcune foto
che invece ci sono tristemente familiari:
sono quelle del relitto del Dc9,
l’aereo che il 27 giugno 1980 cadde al
largo di Ustica con i suoi 85 passeggeri.
«È stato il mio primo lavoro da
consulente», ricorda. Un lavoro impegnativo
e non esente da rischi. «Parecchie
persone legate alla strage sono
morte in circostanze poco chiare.
Così portavo molti pezzi del Dc9 a
Torino per esaminarli nel mio laboratorio.
Poi, quando tornavo a casa li
nascondevo sotto il mio letto». Ma alla fine il team di cui faceva parte ha potuto
dare una svolta all’inchiesta che
da anni si era arenata tra due ipotesi
contrapposte: sull’aereo non c’era una
bomba e non fu nemmeno abbattuto
da un missile.
L’ALA SPEZZATA. «Di sicuro il Dc9 non
presentava alcun segno di esplosione.
Quando fu tirato su dal mare il lavello
del bagno dell’aereo tutti sostennero
che una bomba fosse stata nascosta
sotto. Ma noi, osservando le deformazioni
del metallo e facendo delle
simulazioni con altri lavelli, abbiamo
dimostrato che se ci fosse stata una
bomba al massimo avrebbe potuto essere
posizionata sopra, cosa altamente
improbabile dato che sarebbe stata facilmente
notata».
Cosa accadde, allora? Quella notte
sotto il Dc9 si era nascosto un Mig
libico di ritorno dalla Jugoslavia. Ma
uno o più aerei Nato lo intercettarono
lo stesso e fecero fuoco. «L’onda d’urto
causata dall’esplosione del missile o
la turbolenza causata dall’improvviso
spostamento dell’aereo libico determinarono
la rottura di un’ala del Dc9
e la sua caduta. E da quel momento chi
sapeva ha deciso di insabbiare tutto».
Le schermate del computer di Firrao
continuano a scorrere e ci soffermiamo
su altre due fotografie: una
mostra uno strumento di bordo di un
aereo e l’altra un anello. Solo sulla base
di questi due elementi l’ingegnere,
35 anni dopo la morte del presidente
dell’Eni Enrico Mattei, è riuscito a dimostrare
non solo che sul suo aereo
c’era un bomba, ma anche che l’ordigno
fu piazzato dietro il cruscotto.
«Quel che restava dell’aereo fu distrutto
nel 1970. Ma un dipendente
dell’Eni aveva conservato quello strumento,
mentre la famiglia di Mattei ci
fece avere il suo anello e l’orologio. Su
tutti questi reperti abbiamo trovato le
stesse tracce d’esplosivo».
Dopo qualche anno, Firrao si è occupato
di un altro caso che ha fatto
molto discutere: la morte dello 007
Nicola Calipari, avvenuta a Baghdad
nel 2005 a un posto di blocco americano,
subito dopo la liberazione della
giornalista Giuliana Sgrena.
«Esaminando l’auto su cui viaggiavano,
abbiamo accertato che ci fu
un solo sparatore. Poi l’analisi dei fori
ci ha detto che ci furono tre rafche.
Analizzando la distanza tra i fori e la
frequenza degli spari, abbiamo infine
precisato la velocità dell’auto, circa 60
km all’ora». Una velocità molto diversa
dai 100 km all’ora della ricostruzione
americana.
«La prima raffica», continua Firrao,
«li ha colpiti sotto il cruscotto, mentre
durante la seconda un proiettile di
rimbalzo ha colpito al capo Calipari
che si era chinato per proteggere Giuliana
Sgrena».
Una delle ultime consulenze a cui
Firrao ha lavorato riguarda il Lince,
uno dei mezzi blindati più usati dal
nostro esercito, anche in Afghanistan.
«Ci sono stati molti incidenti mortali,
in cui il Lince improvvisamente
ha sbandato e si è ribaltato. La perizia
ha stabilito che non c’era un difetto di
fabbricazione, ma che per quel tipo di
mezzo occorre una preparazione specifica che gli autisti non possedevano».
L’ingegnere è andato in pensione
lo scorso novembre. Sui giovani cervelli
in fuga all’estero è netto: «Il vero
dramma sono i nostri giovani che per
studiare lasciano il Sud per trasferirsi
al Nord. Se uno studente di Torino va a
Grenoble, perdiamo uno studente che
magari poi torna. Ma se uno studente
calabrese si trasferisce a Torino si impoverisce
un intero territorio».