Una
quindicenne è stata torturata dal marito perché si è rifiutata di andare con
altri uomini, come lui pretendeva. Un'altra ragazza è stata violentata da un
signore della guerra. È rimasta incinta. Le hanno detto che, se accettava di sposare l'uomo che
l'aveva violentata, sarebbe potuta restare in prigione solo tre anni. Una
prostituta è stata impiccata. Sono queste le storie che fanno infuriare Malalai
Joya, ex parlamentare, eletta nella provincia di Farah, la più povera,
nell'Afghanistan occidentale.
«L'intervento
internazionale contro i talebani, nel 2001", racconta, "era stato giustificato anche con la necessità
di tutelare i diritti delle donne. Sono passati quasi 11 anni e non è cambiato
nulla, anzi, la situazione sta peggiorando e gli americani trattano con gli
stessi che prima hanno cacciato. Gli Ulema (maestri nelle scienze religiose,
n.d.r) hanno redatto, ai primi di marzo, un codice di comportamento, che sancisce
che le donne non possono viaggiare senza essere accompagnate da un uomo e non
possono parlare con sconosciuti in luoghi pubblici. Picchiare la moglie è
vietato solo “nel caso che questo gesto non sia compiuto in conformità con la sharia”.
La lapidazione in pubblico è ancora in uso. Così come si può picchiare
tranquillamente una donna con un frustino o ferirla con un coltello, anche se è
incinta. L'islam è uno strumento utile, a uso di questi misogeni. La cosa più
grave è che il presidente Karzai ha approvato questo codice. Questa guerra,
invece di portare un miglioramento, ci sta riportando al Medioevo».
Abbiamo
incontrato Malalai in una casa anonima e ben protetta da un
gruppo di guardie armate, nella periferia di Kabul, dopo due cambi di auto per
motivi di sicurezza. Misure necessarie perché questa giovane donna, dalla mente
arguta e dall'innato coraggio, tanto che alcuni la paragonano alla leader
dissidente birmana, Aung San Suu Kyi, è parecchio scomoda. Fa vibrare ancora le
coscienze dei suoi seguaci, la sua frase: “Se non vi giudicherà un tribunale,
vi giudicherà la storia”.
All'epoca era delegata alla Loja Jirga (assemblea del popolo), che doveva redigere la Carta costituzionale, prese la parola e denunciò la presenza in quella stessa assemblea e nei posti di potere, di criminali di guerra. Era il 2003 e lei aveva 26 anni. Da allora, non ha più una casa, vive nascosta, si muove da un posto all'altro, sempre per periodi brevi, e il tanto odiato burqa, simbolo della sottomissione della donna, è diventato per lei un prezioso alleato. In lotta contro i fondamentalisti e i signori della guerra, è già scampata a sei attentati: nell'ultimo, recente, attacco ai suoi uffici di Farah, sono rimaste ferite due sue guardie del corpo.
- L'ennesimo attentato, ma non ha paura?
«Quando sono andata all'ospedale a trovare le mie due guardie del corpo, mi hanno detto che sono pronte a morire per me, da questo ho ricevuto ancora più energia, più forza. Sono state loro a infondermi speranza e coraggio, dicendomi che non devo darmi per vinta, che bisogna andare avanti. Devo nascondermi, certo. A volte, facciamo girare la notizia che sono all'estero, in realtà sono qui. Ma la gente vuole che io rimanga in vita».
- Qualcuno solidarizza?
«Molti sono dalla mia parte, ma hanno troppa paura per fare dimostrazioni, perché la repressione è terribile. Ma non sono sola. Tanti attivisti e democratici sono impegnati come me, solo che il giornalismo occidentale non ne parla. Altre volte, nel passato, sono stati sconfitti i dittatori, però nel mio Paese bisogna fare i conti con una situazione catastrofica: povertà, ignoranza e mancanza di cibo. Io cerco di spiegare e la gente, piano, piano, diventa sempre più consapevole. In fondo, sono speranzosa perché, se è stato approvato questo codice di comportamento, significa che la resistenza delle donne fa paura».
- Le truppe straniere se ne andranno?
«Parlano del 2013 o 2014, ma non sono onesti. Stanno spendendo ancora di più nel settore militare: è ovvio che resteranno. Dicono che se ne andranno, ma è tutta propaganda. Intanto, il numero delle vittime civili aumenta. Quando uno esce a Kabul, non sa se tornerà a casa. Gli stranieri rafforzano questo Governo “pupazzo”. Signori della guerra, americani e talebani si comportano come moglie e marito, che, dopo un po', stanchi l'uno dell'altro, litigano. Ma sono sempre stati insieme e sempre lo saranno, perciò poi fanno la pace. La democrazia non si è mai imposta con la violenza. Va trasmessa con l'educazione. Non tocca agli stranieri, è un dovere degli afghani».
«Un'esplosione. Mio marito è morto. Dei miei quattro
figli, due hanno problemi psicologici, hanno perso la memoria, e uno ha anche
difficoltà a parlare. Io ho problemi di cuore e la nostra casa ha il tetto
pericolante», dice Fatima.
«Quando è
scoppiato il conflitto, siamo scappati da casa, immediatamente, senza neanche
poter prendere le scarpe. Quando sono potuta ritornare, tutto era stato
bruciato. Chiedere aiuto al Governo è inutile. Tutti sanno che alla gente
povera non danno la licenza per commerciare. Ci vogliono le mazzette e io non
ho soldi. Io, poi, non ho neppure potuto provare a chiedere, perché non so né
leggere, né scrivere. Quelli della famiglia che lo sapevano fare, sono stati
uccisi», afferma Fauzia.
«Nella casa
vicino a noi, un bambino stava nel suo lettino quando è entrata una persona con
un fucile. Il piccolo pensava che stesse giocando con l'arma, gli sorrideva,
invece il signore della guerra gli ha sparato. Mio marito è stato ucciso da un
razzo, sono rimasti solo pezzi di carne appesi al muro. Nel massacro perpetrato
dai talebani, della mia famiglia allargata, sono state ammazzate settanta
persone», racconta Marzia.
«Non riesco a dormire, soffro di depressione e devo
prendere sempre farmaci. Sto seduta e piango per tutte le persone morte che ho
visto. Gli uomini sono stati ammazzati e noi donne siamo dovute fuggire, non
abbiamo neppure potuto seppellire i nostri mariti, che sono stati gettati in
una fossa comune. Quando più tardi, ci è stato chiesto di riconoscerne i corpi,
erano decomposti o mangiati», aggiunge un'altra.
Sono le voci
dei familiari delle vittime: del regime filosovietico (1978-1992), delle guerre
civili (1992-1996), dell'epoca del terrore dei talebani (1996-2001) e fino a
oggi (solo negli ultimi dieci anni, le stime ufficiali parlano di 67 mila morti,
di cui 15 mila civili afghani).
Sono
soprattutto donne quelle che incontriamo in un quartiere povero di Kabul;
vedove, figlie rimaste senza padre, sorelle che hanno perso i fratelli, ma ci
sono anche uomini, che magari hanno fatto la resistenza, ma nessuno glielo
riconosce. Sono donne che la vita ha messo a dura prova, hanno magari 35, 40
anni, ma i visi rugosi dei nostri vecchi, la sofferenza stampata in volto; la
loro età non la sanno neppure loro, qualcuna azzarda un circa, qualche altra
non risponde.
A prendere a cuore le loro storie, è stata Saajs (Social Association of Afghan Justice Seekers – Associazione afghana per la giustizia), sorta nel 2007, con l'obiettivo che vengano perseguiti tutti coloro che, negli ultimi trent'anni, hanno violato i diritti umani e commesso crimini. «Da quando il governo Karzai e i suoi sostenitori stranieri si sono insediati, tasso di insicurezza (ogni giorno centinaia di afghani innocenti perdono la vita in attentati suicidi), povertà (i 40 miliardi di dollari di aiuti internazionali si sono persi nei corridoi del potere), disoccupazione, ingiustizia, corruzione (la coltivazione estensiva e la produzione di oppio sta trasformando la società in un narcostato), uccisione di civili, violazione dei diritti umani, sono aumentati», dice Weeda Ahamd, direttrice di Saajs: «Il Governo non fa altro che ratificare leggi crudeli e ingiuste. L'amnistia per quanti rinunciano alla lotta armata e rompono i legami con Al Qaeda, votata nel 2007 dal Parlamento, è un invito aperto a continuare a commettere crimini e impedisce la vera riconciliazione».
Chi si avvicina all’associazione cerca aiuto per ricostruire le case che hanno perso, per trovare un lavoro per mantenere quel che è rimasto delle loro famiglie. Ma chiede anche che si faccia luce sulle fosse comuni, che i criminali siano assicurati alla giustizia e giudicati da un tribunale internazionale imparziale. Saajs sta facendo un grosso lavoro di ascolto di chi ha perso i familiari. Mariti, mogli, figli, fratelli, sorelle e parenti: vogliono che le loro storie siano conosciute. «Non vogliamo vendetta, non vogliamo lavare il sangue con il sangue, vogliamo giustizia e vogliamo la pace, ma non potrà esserci pace, finché non avremo nulla da mangiare», conclude Fauzia.
«Mi sono sposata a vent'anni. Mio marito era un
drogato, mi picchiava perché quando “si faceva”, non capiva più nulla»,
racconta Leila. «Mi hanno fatto sposare a 10 anni, adesso ne ho 28. Lo scorso
anno mio marito si è preso una seconda moglie. Io non posso avere figli e lui
voleva che andassi con altri uomini, ho rifiutato, così mi picchiava», dice
Zineb, mentre mostra le cicatrici sulle braccia. «Avevo 11
anni quando mio padre e la mia matrigna mi hanno costretta a sposare un uomo
molto più vecchio di me e disabile. Non ero ancora "signorina”, ma pretendeva
rapporti»: il nome preferisce non dirlo.
Di storie simili qui ce ne sono tante.
Siamo in uno dei tre shelter (case rifugio per donne maltrattate) di Kabul,
gestiti dall'associazione Hawka (Humanitarian Assistance for the Women and
Children of Afghanistan). Un appartamento anonimo, per la sicurezza, con 30
posti letto, che accoglie donne bisognose di protezione, spesso con i loro
bambini, scappate da mariti violenti, abusanti o drogati.
Le ragazze
raccontano la loro storia allucinante a voce bassa, quasi sussurrando, mentre
le mani nervose, giocherellano con il velo. Quanto dolore in giovani vite!
Ascoltiamo incredule, il groppo alla gola, quasi ci vergogniamo di violare così
la loro intimità. Rispondono alle domande lentamente, tra pause e sospiri, fino
a che non riescono più a trattenere le lacrime. Solo una ragazza accetta di
farsi fotografare, ma con il viso coperto.
Sono tre a Kabul gli shelter, 14 in tutto l'Afghanistan, ma sempre insufficienti rispetto al dilagare della violenza fisica, psicologica e sessuale: quella perpetrata tra le mura domestiche, colpisce l'87% delle donne. «Abbiamo fondi solo per tre anni», è l'appello della direttrice di Hawka, Selay Ghaffar: «La perdurante instabilità del Paese ostacola l'afflusso. Alle donne offriamo rifugio e protezione, assistenza medica e psicologica. Insegniamo loro a leggere e scrivere, ma anche a essere consapevoli della loro condizione di esseri umani. Non devono pensare che quello che subiscono è diritto del padre, del marito, del fratello... e che in quanto donne devono obbedire. Poiché offriamo anche assistenza legale per quante vogliono divorziare, ci accusano di essere noi a forzarle in questo senso, ma non è così. Si segue la strada del divorzio quando non c'è altra scelta. Abbiamo anche corsi professionali: bisogna renderle indipendenti economicamente, perché è quando escono dal rifugio che comincia la parte più difficile».
La situazione delle donne in Afghanistan è terribile e in continuo peggioramento, secondo l'ultimo rapporto di Human Rights Watch (Hrw), diffuso a fine marzo. Circa il 60% dei matrimoni sono programmati e più del 50% delle spose ha meno di 16 anni. La donna è un bene di famiglia, da vendere al miglior offerente, per motivi economici, per pagare un debito, o per riparare un'offesa. Scappare da casa a molte sembra una soluzione, ma per la Corte suprema di giustizia è reato, indipendentemente dal fatto che i motivi siano maltrattamenti e abusi. Lo stupro è una pratica diffusa e non viene considerato reato, perciò resta impunito, così come il delitto d'onore, da parte di padre e fratelli.
A causa dell'arretratezza mentale e dello stigma sociale, la maggioranza di questi casi non viene nemmeno alla luce. Per la vittima cercare giustizia significa esporsi all'accusa di adulterio, che prevede il carcere. In quello di Herat, ristrutturato con finanziamenti italiani, ci sono 120 donne, dai 18 ai 70 anni. Sembra più una casa di accoglienza, probabilmente più confortevole e sicura di quella dalla quale sono scappate, ma l'ingiustizia palese è che, per “delitti morali”, scontano pene da un mese a vent'anni. C'è poi l'altra “soluzione”, quella estrema: più di 2.000 donne ogni anno si danno fuoco. L'ospedale Istiqlal di Kabul ha un apposito reparto ustioni, il 90% dei ricoveri sono femminili.
«Esistono alcuni strumenti che garantiscono l'uguaglianza di uomini e donne (la Costituzione, per esempio) di fronte alla legge», conclude Selay, «tuttavia i giudici sono parte del sistema di potere fondamentalista dei signori della guerra che governano il Paese, sistema che non differisce dal precedente, dei talebani. Nel caso di relazioni illecite, la donna rischia anche la condanna a morte dei tribunali islamici, una sorta di "giustizia” parallela».