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domenica 23 marzo 2025
 
DIRITTI UMANI
 

La battaglia di Amnesty per Hakamada Iwao, da 45 anni nel braccio della morte in Giappone

26/05/2023  Incarcerato nel 1968 per un crimine mai commesso, l’uomo – ormai quasi novantenne – ha ottenuto nelle scorse settimane il diritto a un nuovo processo dall’Alta Corte di Tokyo. Si tratta dell’ennesimo caso di un innocente condannato a morte. Amnesty International, che da decenni si mobilita per la liberazione di Iwao, ha pubblicato il rapporto annuale sull’uso globale della pena capitale

Quarantacinque anni per avere anche solo la speranza di un giusto processo, dopo più di mezzo secolo trascorso nel braccio della morte. È la storia di Hakamada Iwao, ex pugile ottantasettenne originario di Shizuoka, che nel lontano 1968 venne condannato all’impiccagione per l’omicidio – mai commesso – del suo datore di lavoro e della sua famiglia, trovati accoltellati nella loro casa. La polizia, che al momento del delitto non trovò prove, dopo un mese convocò Hakamada, il quale dovette affrontare sessioni da 12-15 ore di interrogatorio per 20 giorni consecutivi; il tutto, senza nemmeno la presenza di un avvocato, non prevista dalla legge giapponese. Alla fine delle tre settimane, durante le quali venne picchiato e minacciato, Hakamada firmò un’ammissione di colpevolezza: una volta a processo, nonostante le prove in aula non fossero molto attendibili (su tutte, il fatto che la confessione fosse stata estorta con la violenza), l’uomo venne dichiarato colpevole di quadruplice omicidio e per questo condannato alla pena capitale. Subito dopo la sentenza, Hakamada venne trasferito in isolamento nel braccio della morte, da cui poté uscire solo nel 2014, quando la Corte distrettuale di Shizuoka ordinò la scarcerazione provvisoria a seguito della scelta – contestata nel 2018 dall’accusa, ma confermata poche settimane fa dall’Alta Corte di Tokyo – di concedergli un nuovo e giusto processo.

Una decisione che fa ben sperare e che arriva anche a seguito delle lotte decennali condotte da Amnesty International, l’ONG a difesa dei diritti umani che grazie al sostegno del “5x1000” ha potuto promuovere iniziative, mobilitazioni e appelli internazionali a favore di Hakamada, ottenendo un cambio di rotta decisivo seppur dagli esiti ancora incerti.

La vicenda riporta alla luce il tema mai sopito della pena capitale, una sanzione che attualmente viene applicata in più di 50 stati nel mondo e che, stando al rapporto di Amnesty International, è stata eseguita almeno 883 volte in 20 Stati nel solo 2022. La cifra, che denuncia un aumento del 53% rispetto ai dati del 2021, non solo raggiunge il numero di esecuzioni più alto degli ultimi 5 anni, ma non tiene nemmeno conto di quelle avvenute in Cina, in Corea del Nord e in Vietnam, dove il segreto di Stato impedisce la diffusione di stime concrete. Del 90% di queste 883 uccisioni sono responsabili l’Arabia Saudita, l’Egitto ma soprattutto l’Iran: «Le autorità iraniane hanno continuato a utilizzare la pena di morte come strumento di repressione politica», si legge infatti nel documento, «e a mettere a morte in modo sproporzionato membri delle minoranze, come conseguenza della lunga e radicata discriminazione di questi gruppi e della repressione a cui sono sottoposti».

In cinque Paesi (Afghanistan, Kuwait, Myanmar, Palestina e Singapore) le esecuzioni sono ricominciate dopo un periodo di pausa più o meno lungo (in Myanmar erano quarant’anni che non venivano effettuate), mentre in altri quattro (di nuovo Arabia Saudita, Iran, Singapore e Cina) sono state applicate anche a coloro che avevano commesso reati minori – specialmente legati alla droga –, violando il principio del diritto internazionale secondo cui la pena di morte è applicabile solo per crimini che implicano l’omicidio volontario.

«Non si può mai accettare che lo Stato uccida per mostrare che non si deve uccidere», ha detto Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. «La vita di tante persone, condannate alla pena capitale per reati che non hanno commesso, è ancora in pericolo». Anche se sono sempre di più i Paesi che stanno eliminando la pena suddetta dal loro ordinamento giuridico (come ad esempio hanno fatto Kazakistan, Papua Nuova Guinea, Sierra Leone e la Repubblica Centrafricana), resta fondamentale continuare a lottare affinché questa modalità sanzionatoria venga abolita in tutto il mondo.

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