Venezia - Pareva
dovesse essere una Mostra del cinema sottotono, la 71a
edizione di quest'anno. Con meno sponsor, meno soldi, meno titoli
americani e quindi meno star sul red carpet. E la litania del
direttore Alberto Barbera («Giudicatela per i film», continuava a
ripetere, «le star contano ma più importante è aprirsi alle
cinematografie») sembrava solo un voler mettere le mani avanti. Per
non parlare della mosceria in città. I soliti sciami di turisti,
certo, ma anche stanchezza, una sensazione di precarietà, di non
programmazione testimoniata dal perdurante scempio del “buco”,
malamente nascosto e ricoperto, dove avrebbe dovuto innalzarsi il
nuovo Palazzo del cinema in occasione dei 150 anni dell'Unità
d'Italia.
Il fallimento simbolo di un'amministrazione cittadina che,
tra l'altro, non c'è più: l'inchiesta giudiziaria su mazzette e
corruzioni legate al progetto del Mose, oltre a costringere alle
dimissioni il sindaco Orsoni, si è portata via un bel po' di grossi
nomi.
Ci
ha dovuto pensare il nostro gran vegliardo, il presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, a rincuorare tutti suonando la
riscossa. «Venezia è una città impareggiabile», ha detto,
«purtroppo scossa nelle sue rappresentanze pubbliche da vicende
recenti, inquietanti e penose. Ma la Biennale, che non è solo quella
del cinema ma anche quella di altre arti, resta un pilastro decisivo.
Ad essa l'Italia deve molto del suo prestigio internazionale sia
culturale che artistico. Venezia può ripartire da questa
istituzione. Così pure l'Italia».
Standing
ovation e buio in sala. Ed è a questo punto che sono venute le
sorprese, perché raramente la rassegna cinematografica è partita
così bene, con film di valore. Altra sorpresa positiva, la profonda
ristrutturazione della Sala Darsena, il secondo cinema per importanza
della Mostra dopo la storica Sala Grande. Erano sessant'anni o giù
di lì che languiva. Il presidente della Biennale Paolo Baratta ci ha
puntato i pochi soldi a disposizione e ha fatto bingo. Adesso è un
cinema all'avanguardia, una sala di qualità.
A
poco sarebbe servito, però, senza buoni film da proiettare. Qui ci
ha messo del suo il direttore della Mostra, Alberto Barbera, capace
di offrire a critici e spettatori una partenza col botto. È piaciuto
molto Anime nere,
il primo titolo italiano in concorso firmato da Francesco Munzi (che
abbiamo già segnalato).
Ma a predisporre tutti al meglio aveva
provveduto il titolo di apertura: Birdman
(o Le imprevedibili virtù dell'ignoranza)
di Alejandro Inàrritu.
Un altro regista messicano trapiantato a
Hollywood, proprio come l'anno scorso Alfonso Cuaròn, giunto al Lido
per presentare Gravity,
partito senza premi ma con tanti applausi per poi arrivare a far
manbassa di Oscar. Accadrà lo stesso per il film di Inàrritu? C'è
già chi scommette di sì, per lo meno per quanto concerne il
protagonista maschile: un Michael Keaton strepitoso, a 63 anni più
bravo che mai, capace di dar spessore alla storia di Riggan Thomson,
attore in declino dopo essere stato una star da blockbuster nei panni
di un supereroe alato (l'uomo-uccello del titolo). Per non scivolare
lungo il viale del tramonto decide di mettere in scena, a Broadway,
un suo adattamento di un testo di Raymond Carver: Di
cosa parliamo quando parliamo d'amore.
Una sfida che l'acida critica teatrale del Times dà persa in
partenza. Col virtuosismo di una macchina da presa che pare non
staccare mai passando da un personaggio all'altro, da una situazione
all'altra, lo spettatore segue i giorni di prove. La defezione non
casuale del comprimario. L'arrivo di un sostituto fin troppo famoso
(Edward Norton, pure lui bravissimo). Le fibrillazioni tra i quattro
personaggi, in scena ma anche fuori: uomini e donne intrecciati tra
loro nella vita reale. Con l'aggravante di Sam, figlia ventiseienne
di Riggan, assistente del padre per distrarsi e starsene alla larga
dalle droghe, ma giovane donna di insospettate qualità nonché
figlia rancorosa (terzo pezzo di bravura firmato Emma Stone).
Il
cocktail diventa via via esplosivo per le croniche insicurezze di
Riggan, che rivuole il successo per sentirsi di nuovo accettato e
amato ma si porta letteralmente sulle spalle un alter ego distruttivo
(il Birdman che fu e che gli ricompare all'improvviso).
Una
black-comedy sulle fisime degli attori, su Hollywood, sul teatro coi
suoi rituali. Condita con una colonna sonora straniante, fatta di
assolo di batteria martellanti come lo sono i pensieri di Riggan.
Innumerevoli le battute al vetriolo, intelligenti quanto esilaranti,
che colpiscono veri nomi dello starsystem. Più considerazioni
taglienti sulla notorietà, i critici, i social network e tutto ciò
che contribuisce a innalzare e poi seppellire l'ego di un artista.
Una per tutte: «La fama è la cuginetta zoccola del prestigio».
Basta un niente per diventare famosi, in un attimo poi si può
ripiombare nell'oblio. Insomma, un bel film sulle illusioni del
successo e i pericoli esistenziali (giusto un po' ridondante nel
finale). Variety ha paragonato la crisi di Riggan a quella del
protagonista de La grande
bellezza.
A noi ha fatto tornare alla mente il suicidio di Robin Williams.
«Oggi
la gente vuole essere famosa subito, senza fatica. In un secondo puoi
raggiungere gli 800 mila follower su Twitter», chiosa Inàrritu, già
regista di titoli notevoli come 21
grammi
e Babel.
«Per molti questo significa una riuscita, cui seguirà però
l'inevitabile disillusione». «Io non somiglio a questo attore in
pieno crollo emotivo, che ha bisogno di conferma», protesta un
Michael Keaton invecchiato, ingrassato, spelacchiato ma super bravo.
«L'unica cosa che abbiamo in comune è che anch'io ho avuto il
successo planetario con un film su un supereroe mascherato. Ma sono
passati venticinque anni da quel Batman
e oggi sono convinto che una bella vita e una buona carriera possano
marciare insieme. Tutti abbiamo un Birdman sulle spalle, il nostro
ego che ci insegue, il nostro fantasma. L'importante, quando poi uno
sale in macchina, è di farlo accomodare sul sedile posteriore».