Sorride, Dori Ghezzi. Un sorriso luminoso che non l’abbandona mai, anche quando le tocca ricordare eventi dolorosi, come i quattro mesi del sequestro in Sardegna o quelli della malattia e poi della scomparsa del suo Fabrizio: «Sono una donna fortunata» ripete, come se De André fosse ancora al suo fianco.
Ed è proprio questa l’impressione che si prova leggendo Sotto le ciglia chissà (Mondadori). Sembra di ascoltare Faber seduto in poltrona che con la sua voce gentile alterna profonde riflessioni a motteggi in cui dà libero sfogo alla sua parte più goliardica.
Il libro è il frutto del lavoro di Dori che ha raccolto le parole che suo marito annotava dove capitava: su quaderni, buste delle lettere, bollette della luce, cartoline: «Fabrizio non era, diciamo così, ordinatissimo. Non buttava niente: lui lasciava, spesso anche a casa di altri». Ritroviamo ora questi pensieri sparsi nelle pagine senza un ordine temporale, come se fossero appunto le parti di un dialogo.
«A volte lui stesso si fa una domanda e si dà una risposta. E ci sono anche molte cose che lui non avrebbe mai detto a voce alle persone che amava, per pudore o semplicemente perché pensava che i sentimenti si dimostrano », rivela Dori.
Ecco allora una dichiarazione d’amore per lei: «Per quanto riguarda mia moglie posso dire, da parte mia, che insieme a lei riesco a costituire una società perfetta, che non ha bisogno di alcun intervento esterno». E per la loro figlia, Luvi: «Un attimo prima che tu venissi al mondo, tua madre e io ci concentrammo forte che tu nascessi vitale e completa e dieci dita avessi alle mani e dieci dita fossero le dita dei tuoi piedi. Nascesti perfetta e nella perfezione sorridevi».
Parole piene d’affetto ci sono anche per l’altro figlio Cristiano, avuto dalla prima moglie, con cui i rapporti furono più difficili, specie durante la sua infanzia. «Purtroppo mi accorgo che non sempre io riesco a interessarlo. Sono tutt’altro che un cattivo padre, gli voglio un gran bene, ma non mi riesce sempre di adeguarmi ai suoi meravigliosi undici anni». E più avanti: «Potrei suggerirgli di non scendere le scale a precipizio. Ma la stessa cosa potrebbe dirla lui a me».
Ma le parole più toccanti sono quelle dedicate al fratello maggiore Mauro, morto nel 1989, e al padre Giuseppe, scomparso quattro anni prima: «Mio padre sarebbe mancato l’indomani appena dopo avermi salvato la vita». In punto di morte, infatti, gli fece promettere che avrebbe smesso di bere.
«C’ero quel giorno» ricorda Dori. «Grazie a suo padre, Fabrizio riuscì a liberarsi definitivamente dall’alcolismo, portando a termine un percorso iniziato dopo aver scritto Amico fragile, la sua canzone più autobiografica». Che non a caso, insieme a Il testamento di Tito, brano inserito nel disco La buona novella, considerava come «la mia migliore canzone». Ma in genere sul suo lavoro era ipercritico, tanto da affermare: «Appena esce il disco vorrei distruggerlo: mi sembra inutile, sorpassato». «Era esigentissimo con sé stesso», ricorda Dori. «Era capace di lavorare per giorni su una singola parola. Nel libro riportiamo molti suoi pensieri che, rielaborati, sono diventate canzoni. E poi aveva un grande rispetto per il pubblico. C’è anche una sua lettera di risposta a due fan, Mario e Vittorio, che non ha mai conosciuto».
Le pagine del libro che più la emozionano sono quelle dedicate all’infanzia di Fabrizio a Genova: lui, nato in una famiglia benestante, appena poteva fuggiva per unirsi ai «ragazzi di strada, scugnizzi svelti di parola e di mano. Eravamo una banda e ci sentivamo tutti una reincarnazione di Robin Hood, avendo capito fin da bambini che, al mondo, c’è chi ha troppo e chi ha niente». E, appena ha potuto, ricorda sua moglie, «si è trasferito in Sardegna, vivendo come un vero contadino. Verso il denaro, poi, ha sempre mantenuto un atteggiamento, diciamo, molto poco responsabile…».
Molti suoi pensieri sono messi in fila nel libro in modo da spiazzare chi legge. Una frase desolata come «sono vecchio, non ho più voglia di stupire né desiderio di essere stupito» è seguita da «una minestra leggera ed è subito sera». «Perché Fabrizio era così», spiega Dori. «Umorale, ironico, pieno di dubbi e contraddizioni. Aveva i suoi cinque minuti di tempesta. E subito dopo era come se nulla fosse successo. Questa era la sua bellezza: non serbava mai rancori per nessuno». Neanche per i loro sequestratori: «Li ha sempre considerati come delle vittime delle loro condizioni sociali».
Questi dubbi e contraddizioni si ritrovano nel rapporto di Faber con la religiosità: dalle critiche verso la Chiesa come istituzione, alla venerazione per Gesù («Il più grande testo d’amore che io abbia mai letto è il Vangelo»), ma non solo («S. Francesco. A che vale avere amato, se nessuno se ne è accorto, anche se lo hai fatto per il bene di tutti? Tu con la tua povertà, con la tua umiltà, hai saputo umiliarci »), alla fede in Dio sempre inseguita («Ho sempre detto che Dio è un’invenzione dell’uomo, qualcosa di utilitaristico, una toppa sulla nostra fragilità. Ma tuttavia con il sequestro qualcosa si è smosso. Non che abbia cambiato idea, ma è certo che bestemmiare oggi come minimo mi imbarazza»). E più avanti: «Io mi sono sempre sentito parte di un tutto, un piccolo tassello di un progetto universale».
Nelle ultime pagine del libro, Fabrizio fa i conti con la sua malattia, con parole terribili: «Poi finalmente il cancro a liberarti da una ragnatela di rimorsi, rancori e rimpianti. Dicono colpisca anche le persone buone. Chi è buono? È buono solo il cancro che non fa distinzioni e non si lascia corrompere perché conosce il teatro e gli attori e soprattutto sa che questo mondo non è stato fatto per gli uomini».
Parole subito seguite da altre, struggenti: «Il cancro qui lo esorcizzano e poi lo seppelliscono. Sarei rimasto volentieri» e da altre ancora, amaramente ironiche: «Non vorrei che qualcuno dicesse di me: “Ecco, la sua morte è arrivata al momento giusto”». «La malattia se l’è portato via in pochissimi mesi», ricorda sua moglie. «E fino all’ultimo lui ha sperato tanto di farcela».
Il libro si chiude con questo aforisma: «E poi a un tratto l’amore scoppiò dappertutto». Dori: «Fabrizio è sempre stato insoddisfatto del mondo. Eppure sognava un mondo migliore per chi sarebbe arrivato dopo di lui».
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