Salva, cresci, semplifica: queste sembrano essere finora le tre parole d’ordine dell’esecutivo Monti, dal Salva-Italia al Semplifica-Italia, passando per il Cresci-Italia. Ma presto se ne aggiungerà un’altra che con ogni probabilità suonerà vicina a ‘lavora’. Si sta mettendo mano infatti a un’altra cospicua riforma, quella del mercato del lavoro, che con ogni probabilità dovrà misurarsi con un nodo fonadamentale, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
In ogni caso le proteste finora non sono mancate, oltre alle agitazioni dei tassisti e di altre categorie, alcune per ora solo proclamate, la scorsa settimana, mentre il DL sulle liberalizzazioni era ancora fresco di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 19 del 24 gennaio, e mentre già si discuteva il Semplifica-Italia, decreto sullo snellimento della burocrazia e sul ricorso massiccio a internet per velocizzare pratiche e certificati, scendevano in piazza, o meglio sulle strade, gli autotrasportatori, bloccando il Paese e facendo impennare il prezzo dei beni di prima necessità come frutta, verdura e generi alimentari.
La loro protesta in realtà non era legata direttamente a pacchetti in corso di approvazione, ma veniva da lontano, proclamata già da dicembre da alcune delle tante sigle sindacali che costellano un universo variegato e non sempre facilmente decifrabile, quello dell’autotrasporto.
Tuttavia una cosa sembra essere chiara: in qualche modo anche la loro protesta era legata ad alcuni dei temi trattati nel decreto liberalizzazioni come il costo del carburante, il gasolio in particolare, e quello dei pedaggi autostradali.
Vediamo allora da vicino cosa comportano le liberalizzazioni sul piano delle cifre ed in particolare gli aspetti legati all’energia trattati nel pacchetto approvato in Cdm oltre una settimana fa e che questa settimana invece ha iniziato un complesso iter parlamentare per la sua trasformazione in legge, che lo ha visto in Commmissione Industria al Senato e lo vedrà in altre nove delle quattordici Commissioni permanenti.
Il Pil che cresce dell’11%, consumi privati e occupazione che salgono dell’8%, e i salari reali del 12% senza effetti negativi sull’occupazione. Una previsione da fantascienza, soprattutto in clima di recessione, e invece proseguendo verso un mercato più libero e trasparente si potrebbe guadagnare un 2% di crescita all’anno, nei prossimi cinque. Numeri importanti, quelli che diffondeva Palazzo Chigi all’indomani del varo del pacchetto Cresci-Italia.
Tanto più importanti se si considera che secondo quanto ci hanno appena fatto sapere gli analisti dell’agenzia di rating statunitense Moody’s con il ritorno dell’Ici, l’aumento dell’Iva e le altre misure introdotte a dicembre con il decreto Salva-Italia il Pil calerà dell’1% nel corso del 2012.
A quanto pare le liberalizzazioni sono un toccasana per raddrizzare il Paese e alcuni dei più prestigiosi think tank, fondazioni e istituti di ricerca hanno contribuito al dibattito. Tra questi Glocus e l’Istituto Bruno Leoni che hanno redatto un documento congiunto articolato in dieci proposte di liberalizzazione su altrettanti settori chiave dell’economia del nostro Paese. Presentato alla vigilia dell’approvazione del decreto in Consiglio dei Ministri è stato occasione di dibattito per forze politiche di segno opposto. Ma i responsabili economici dei principali partiti, da Claudio Scajola del Pdl a Stefano Fassina del Pd, si sono dimostrati unanimi nel giudizio: bisogna far presto e andare fino in fondo. “Ora che il decreto è stato approvato in Cdm” sintetizza Linda Lanzillotta, presidente di Glocus ed ex ministro per gli Affari Regionali, “si deve fare tutto quello che prevede, e assolutamente non abbassare la guardia perché le Lobby si metteranno in moto. Occorre essere molto vigili e non svuotare il provvedimento durante il passaggio parlamentare, ma rafforzarlo”.
Per Benedetto Della Vedova, di Fli, la posizione da tenere riguardo alle proteste andate in scena nei giorni scorsi è chiara: “Con i tassisti bisogna andare fino in fondo, se subisci l’intimidazione una volta poi la subirai ancora, su altre cose. Così come non si può accettare il ‘niet’ dei sindacati sull’articolo 18”. E persino Claudio Scajola, attuale responsabile economico del Pdl, ha ammesso: “L’opera di liberalizzazione fatta dal governo del quale ho fatto parte è stata molto timida”.
C’è da stare attenti, però, sull’entusiasmo relativo agli effetti delle liberalizzazioni, almeno nel breve termine, perché se le stime di Moody’s si riferiscono a qualcosa che avverrà nel corto raggio non è lo stesso per gli effetti di queste ultime, che ci metteranno un po’ a farsi sentire. Sebbene il premier Monti abbia sottolineato che si tratta di togliere tutte le tasse ‘occulte’ che insistono sui consumi, cioè quelle che si pagano con prezzi e tariffe fatti da chi detiene posizioni di rendita e di privilegio, siamo sicuri che tutti questi effetti si faranno sentire a breve sulle tasche delle famiglie italiane? “L’energia resta un settore fondamentale per consumatori, famiglie e imprese” continua l’On. Lanzillotta, Api, “e al momento condiziona negativamente la competitività”.
Prendiamo allora ad esempio il campo dei carburanti: il 70% di quello che ci costa un litro di carburante è sostanzialmente di accise ed Iva. Ormai un litro si aggira intorno agli 1,7 euro e circa un euro sono di tasse. La materia prima costa intorno ai 60 centesimi e rimangono poco più di dieci centesimi sui quali giocare per il libero mercato. Certo il margine di miglioramento c’è, ma anche sul piano dell’energia ci vorrà tempo prima che le tariffe scendano.
Anche per elettricità e gas il nostro livello di imposte è uno dei più alti d’Europa. Prendiamo ad esempio il costo del gas per le nostre tasche: su circa 86,4 cents a metro cubo i margini per gli operatori di mercato, dettaglio e ingrosso insieme, arrivano solo a 7 centesimi, rappresentando nell’immediato tutto quello su cui può agire la concorrenza. Altri margini ci sarebbero sul prezzo di importazione della materia prima, il petrolio, che incide per circa 35 centesimi, e il decreto va anche in questa direzione, ma qui i tempi si allungano. Non va dimenticato poi che il gas incide sul prezzo della bolletta elettrica, essendo al momento il metano la sua principale fonte di produzione, e inoltre le bollette elettriche sono gravate dagli incentivi per le rinnovabili.
Circa 400 euro per ogni consumatore, questo il risparmio annuale reso possibile dal decreto Cresci-Italia, stime di due importanti associazioni: Adusbef e Federconsumatori. Nel calcolo rientrano farmacie, professioni, trasporti, commercio ma è all’energia che in particolare vogliamo guardare. Sembra che con queste nuove norme ogni consumatore risparmierebbe 58 euro l’anno in carburanti e 51 sulla bolletta dell’energia, in un quadro in cui la spesa media annua per una famiglia italiana ammonta a 897 euro per i carburanti, 588 euro per l’energia elettrica e 986 euro per il gas.
Riguardo ai carburanti il decreto sancisce la possibilità di aprire impianti self-service fuori dai centri abitati senza vincoli e limitazioni, e per i gestori proprietari dell’impianto di potersi approvvigionare all’ingrosso per il 50% dell’erogato da un qualunque fornitore, anche diverso da quello di cui l’impianto porta il marchio. Ma soprattutto la possibilità di vendere prodotti non-oil, cioè diversi dalle benzine, come giornali, tabacchi e ricambi.
In effetti i gestori proprietari degli impianti in Italia sono solo 500 su 25mila, un 2% del totale che è ben altra cosa se si pensa che la prima versione del decreto che prevedeva la possibilità di rifornirsi dal miglior offerente per tutti. Se il margine lordo al dettaglio, cioè il guadagno sui carburanti per il benzinaio, non supera che di poco i dieci centesimi, quello delle compagnie, legato al prezzo del greggio, incide per circa 60 centesimi, con queste ultime molto lente a tagliare i listini quando il prezzo della materia prima scende.
Tuttavia non tutti sono critici con il passaggio dalla bozza al decreto definitivo: “La prima versione del decreto affrontava il tema della concorrenza nei carburanti dal punto di vista sbagliato” afferma Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni, “sembrava presupporre che il problema della concorrenza fosse nel modo in cui i benzinai si approvvigionano e non invece nella concorrenza tra impianti e tra modelli di business diversi nella distribuzione”.
Secondo Stagnaro l’idea di trasformare il gestore in un broker di carburanti che si rifornisca a prezzi più convenienti e che scarichi poi la convenienza sul consumatore non è la visione corretta, “il problema della rete di distribuzione del carburante in Italia” prosegue “è che abbiamo troppi impianti e troppo piccoli. Sembra quindi evidente che mettere il gestore in condizioni di approvvigionarsi meglio, in un contesto di mercato non competitivo, si possa tradurre in un aumento del suo guadagno, ma non necessariamente in un risparmio per il consumatore. Il punto fondamentale è invece il modello di business. Fino a pochi anni fa il benzinaio poteva vendere solo benzina, ora il punto vero è la totale liberalizzazione del mix merceologico”.
Ma in che modo vendere anche giornali e tabacchi, quando già si potevano vendere cibo, cd e altro dopo il decreto Bersani, sarebbe un vantaggio per il consumatore?
Cambia il modo di guadagnare del benzinaio che oggi vive solo col margine sulla benzina, ma nel momento in cui diventa una specie di minimarket vende una serie di altri servizi. Così il suo scopo non è più che il cliente vada lì a far benzina ma che insieme alla benzina prenda anche il caffè, il giornale, le sigarette e magari un cd. In quel momento il suo reddito deriverebbe dalla somma dei margini su tutti questi prodotti.
Potrebbe così abbassare il prezzo della benzina?
La benzina diventa, e questo è vero a maggior ragione nel caso dei supermercati, una sorta di specchietto per le allodole. Lei viene attirato dalla benzina, ma poi si ferma a comprare altro. Questo renderebbe possibile abbassare i prezzi dei carburanti creando una concorrenza tra impianti di distribuzione.
Mi spieghi dei supermercati...
Nella maggior parte dei Paesi del mondo i supermercati hanno una quota di mercato di vendita di carburanti molto più importante che da noi. Il supermercato vende molta più benzina con un margine unitario molto più basso. Ma in quel caso la logica è rovesciata: tu devi fare la spesa, devi fare anche benzina e io ti offro la comodità di parcheggiare la macchina e di comprare tutto quello che ti serve a prezzi più convenienti.
Quindi con il decreto che è appena stato approvato troveremo la benzina anche nei supermercati?
Teoricamente poteva avvenire anche da prima, era previsto dal decreto Bersani, tuttavia c’è un aspetto sul quale il decreto non interviene. Con la parte su tabacchi e giornali avviciniamo il benzinaio al modello del minimarket. Per il supermercato o per il nuovo benzinaio che apre restano invece una serie di problemi legati a normative regionali, indipendenti dal provvedimento. Di fatto in molte regioni ci sono norme che dicono che ogni nuovo impianto deve dotarsi di almeno uno, in alcuni casi due, tra metano, gpl e idrogeno. Oltre ad essere anticoncorrenziale, perché si applica solo al nuovo e non al vecchio, il problema è costituito soprattutto dagli spazi: per avere il metano occorrono superfici molto più ampie per ragioni di sicurezza. In molti contesti quindi, per esempio le aree urbane, diventa difficile aprire nuovi impianti e questo cristallizza il mercato. Vale anche per la benzina nei supermercati. Basterebbero piccoli emendamenti alle leggi regionali sul commercio, che non obbligassero ogni nuovo impianto ad avere metano, gpl o idrogeno, per avere più concorrenza.
Quotata in borsa per un valore di 12 miliardi di euro, con quasi 32mila chilometri di gasdotti in esercizio, Snam costituisce una realtà piuttosto solida che tra il 2001 e il 2010 ha distribuito agli azionisti 5,5 miliardi di euro, di cui 2,5 al principale, l’Eni.
La rete gas è uno degli asset strategici più importanti per il nostro Paese e il decreto ne prevede lo scorporo, ovvero la separazione proprietaria tra Snam che ne è il gestore e l’Eni, che controlla direttamente oltre il 52% di quest’ultima ed è il principale operatore nel mercato italiano per la fornitura della preziosa risorsa. Lo scopo è quello di favorire l’ingresso di nuovi soggetti nel mercato del gas.
“Questo mercato è caratterizzato dalla compresenza di alcuni segmenti concorrenziali, come la vendita del gas, e da alcuni segmenti non concorrenziali, come la rete. I tubi in altre parole sono sempre gli stessi e ovviamente non vengono cambiati se si cambia fornitore” spiega Carlo Stagnaro, direttore ricerca e studi dell’Istituto Bruno Leoni. “Se però lo stesso soggetto è contemporaneamente proprietario-gestore dei tubi e il più importante fornitore di gas, questo determina immediatamente un conflitto d’interessi sia nella dimensione di vendita quotidiana, che è però facilmente controllabile, che nella politica di investimenti. Chi mi garantisce che la rete non venga pianificata in funzione dell’interesse del suo controllante, cioè di Eni, piuttosto che nell’interesse del consumatore?
Quello della separazione proprietaria è quindi un passo fondamentale per creare concorrenza nel mercato del gas e per porre le premesse di una riduzione dei prezzi. In questi casi il diavolo si nasconde però nei dettagli: il decreto fa l’unica cosa che poteva fare, cioè mette in moto un processo, ma per vedere i risultati bisognerà guardare cosa succede lungo la strada. A che condizioni e con che tempistica si realizzerà l’uscita di Eni da Snam Rete gas”. Per la separazione infatti si dovrà aspettare un nuovo decreto, che metta a punto i dettagli, e il Cresci-Italia prevede sei mesi di tempo per il decreto attuativo, e altri 24 mesi, cioè due anni, per rendere la separazione esecutiva. Com’è evidente la faccenda non è immediata.
“Questo però è inevitabile” prosegue Stagnaro “perché sono processi che richiedono i loro tempi e implicano forme di riorganizzazione societaria, non è possibile attuarli in termini immediati. Inoltre ci sono studi eseguiti da Banche d’affari e da Fondi d’investimento, alcuni dei quali anche azionisti di Eni, secondo i quali una riorganizzazione del gruppo potrebbe addirittura creare valore”. In realtà qualcos’altro, e di più immediato, il decreto lo fa: si tratta di agganciare le tariffe del gas alla media europea. In Italia l’energia costa in media il 30% in più e questo sovrapprezzo è uno svantaggio in termini di concorrenza per le nostre imprese rispetto a quelle estere. Per le famiglie italiane il kilowattora costa circa 70 centesimi, contro i 55-60 dell’Eurozona (media a 27). E in proposito non va dimenticato che il prezzo della bolletta scende negli altri Paesi perché l’energia viene prodotta con il nucleare e con il carbone e non solo con il gas.
Noi scontiamo anche un altro gap: il gas arriva con i tubi da Russia, Algeria e Libia, e mare del Nord. Difficile in questo modo risentire positivamente del calo dei prezzi se vengono scoperti nuovi giacimenti, come è stato di recente, con riduzioni fino al 30-40% sul mercato mondiale. Bisognerebbe avere la possibilità di ricevere la materia prima via nave, e quindi disporre di una rete efficiente di rigassificatori. C’è da dire che la separazione non dovrebbe riguarderebbe solo la rete di distribuzione, ma l’intera holding Snam, cioè anche le attività di stoccaggio e rigassificazione, holding di cui la rete di distribuzione costituisce l’80% del business.
In questo senso il Cresci-Italia, prevedendo l’arrivo di concorrenza nel mercato, può favorire nuovi investimenti in infrastrutture, e non solo l’acquisto di quantitativi di gas alle frontiere da distribuire poi attraverso la rete. Ci vorranno anni però e soprattutto sarà fondamentale l’individuazione di un’acquirente credibile, vista la funzione vitale che l’asset ricopre per la nostra industria e per il nostro Paese.
Il settore elettrico è stato liberalizzato nel 1999 separando Enel dal gestore della rete di alta tensione, affidata a Terna, e da allora la bolletta è salita solo dell’1,9%. Tuttavia vale la pena soffermarsi brevemente anche sul capitolo dell’energia elettrica, visto che in parte viene toccato dal decreto Cresci-Iatalia.
“Sul tema dell’elettricità” afferma Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni, “nel decreto è stata inserita una norma molto generale ma molto importante che prende atto del fatto che sul mercato ci sono problemi legati alla grande diffusione delle fonti rinnovabili e al fatto che queste, sia per natura che per struttura, creano una serie di problemi tecnici. Da un lato le rinnovabili sono sussidiate e quindi sono fuori mercato perché la tariffa viene decisa dalla politica e non c’è margine di sconto.
Più grande infatti diventa la quota di elettricità prodotta da fonti sussidiate (qualunque esse siano, ndr) e più piccolo è lo spazio per il mercato. Dall’altro lato c’è un problema più squisitamente tecnico poiché alcune rinnovabili, come solare ed eolico, non producono in maniera continua ma intermittente. Questo crea una serie di difficoltà per quanto riguarda la gestione della rete che si traducono in costi. A questo proposito il decreto prescrive all’autorità per l’energia di mettere la testa su questo problema e di individuare gli strumenti più efficaci per risolverlo. Soprattutto di risolverlo al costo più basso”.
Alcune critiche sono poi arrivate per la decisione di creare un’Autorità indipendente per i trasporti che si è trasformata nella scelta di affidarne i compiti pro-tempore a quella per l’energia elettrica e il gas. “Questa è una scelta che mi ha lasciato molto perplesso per due ragioni” prosegue Stagnaro “in primo luogo siamo stati tanto tempo senza un’Autorità per i trasporti, tanto valeva aspettare ancora un po’ e costituirla direttamente, piuttosto che creare una soluzione ponte di questo tipo. Secondo, mettere insieme energia e trasporti significa dare tanti e tali poteri a quell’Autorità che sorgeranno sicuramente delle difficoltà”.
Il rischio di un’eccessiva burocratizzazione della nuova Autorità c’è eccome, e in effetti il fatto che l’assegnazione dovrebbe essere solo transitoria, visti gli interessi in gioco, soprattutto da parte dei monopoli autostradali, non è in alcun modo una garanzia.