Contribuisci a mantenere questo sito gratuito

Riusciamo a fornire informazione gratuita grazie alla pubblicità erogata dai nostri partner.
Accettando i consensi richiesti permetti ad i nostri partner di creare un'esperienza personalizzata ed offrirti un miglior servizio.
Avrai comunque la possibilità di revocare il consenso in qualunque momento.

Selezionando 'Accetta tutto', vedrai più spesso annunci su argomenti che ti interessano.
Selezionando 'Accetta solo cookie necessari', vedrai annunci generici non necessariamente attinenti ai tuoi interessi.

logo san paolo
mercoledì 19 marzo 2025
 
 

Il mondo va avanti. Senza di noi

24/06/2010  Avanzano le squadre dell'America del Sud, l'Asia si propone come nuova protagonista, le tradizionali potenze calcistiche d'europa stentano o tornano a casa. Come noi.

Il mondo va avanti senza di noi. Non è mai facile accettarlo ma è sempre così che succede. E' un mondo capovolto rispetto a quattro anni fa. Fuori con biasimo: la prima e la seconda di allora. Domani rischia un'altra tra le migliori quattro. La Germania ha il 50 per cento delle possibilità di farcela con l'Inghilterra del ruvido Capello, che ha riportato la disciplina e vedremo che altro. Comunque vada sarà un altro pezzo d'Europa che fa le valigie.

    Ne resta una parte clamorosa: la Slovacchia, spinta in carrozza  da un'Italia tornata a casa a bordo di una zucca e dalle magie di Vittek, una specie  Pak Doo Ik al quadrato. Agli ottavi la Slovacchia trova l'Olanda: rapida, solida e concreta come mai dagli anni d'oro. Potrebbe essere come sbattere contro un muro, ma magari no. Spagna e Portogallo, le meno europee del vecchio continente, proiettate, anche calcisticamente parlando, verso il nuovo mondo: sono costrette a vedersela da subito nel derby delle Colonne d'Ercole. Sulla cartina il Portogallo è già oltre, sulla carta però no.

     Il fùtbol bailado del calcio latino è sopravvissuto alle fiamme dei gironi come mai dagli albori: tra Centro e Sudamerica sono partite in otto e rimaste in sette, solo l'Honduras, finita nel girone infernale di Spagna, Svizzera e Cile, è rimasta stritolata. Le altre ci sono tutte. I Messicani che rifilarono un 2-0 all'Italia in amichevole giusto prima di partire (e l'avrebbero rifatto in Sudafrica se ne fosse capitata l'occasione) se la vedono domani sera con la più tosta delle avversarie: l'Argentina di Messi che quando gli dai una palla a spicchi gioca come una fochina al circo. E Maradona che lo sa, perché se potesse giocherebbe anche lui, la palla gliela regala sempre. Il Brasile di Dunga, il più europeo di sempre stilisticamente parlando, trova le formiche rosse del Cile: piccole, veloci e cattive. Una semifinale conquistata ma è stato tanto tempo fa. Il Paraguay, che alla partenza avrebbe firmato per un secondo posto in girone dietro l'Italia e per la sventura di battersi con contro l'Olanda, si trova primo e affronta il Giappone, portato avanti da Endo, che ha il nome di un ginnasta d'altri tempi, e da Honda, che si chiama come una moto. Acrobazie che si sappia non ne fanno ma corrono come se avessero il motore. Sempre meglio dell'Olanda, comunque. L'Uruguay, identico percorso del Paraguay con la  Francia suicida al posto dell'Italia, s'aspettava l'Argentina. Trova la Corea del Sud e ringrazia.

     A proposito, mai nella storia tanta Asia tutta insieme fin qui. Lo scontro che resta è una frontiera sul futuro. Il Ghana è l'unico avamposto africano del primo mondiale d'Africa: l'esplosione di un calcio che da anni rimpolpa i campionati europei si fa attendere un altro po'. In compenso il pallone ha trovato l'America, quella di Barak Obama, dove il calcio con la palla tonda, che loro chiamano soccer, era fino a pochi giorni fa uno sport per signorine. Alla lettera: uno sport prevalentemente femminile in un mondo in cui i maschi tifano sfegatati sugli spalti dei campionati professionistici di pallacanestro, hockey, baseball e football (americano), un calcio parente gonfiato del rugby che si gioca con la palla ovale, l'armatura di gomma piuma e la faccia bistrata di grasso nero per sembrare più cattivi. Insomma un altro mondo. Oggi pomeriggio alle 16 comincia il giro del mondo, quello vero dove chi si ferma è perduto. Si scontrano gli antipodi: Uruguay-Corea del Sud e Stati Uniti-Ghana. E' ora di trovarsi una squadra e di ricominciare a tifare, magari scegliendo la cosa più lontana dall'azzurro: il bel gioco.

 Chissà se Marcello Lippi ci ha pensato ieri in allenamento, mentre sistemava le sagomette bianche che simulano l'avversario da saltare e fanno tanto tiro a segno. Chissà se ha pensato che, se si fosse messa male, sarebbe toccato a lui oggi mettersi al posto del bersaglio per farsi sparare.  

    La sua tattica è stata sempre un asserragliarsi dietro una fortezza di silenzi e risposte acide, ma funziona solo quando va tutto bene. Se va male, quando la metti così, resta solo il plotone d'esecuzione.
Forse se lo aspettava, perché il mestiere lo conosce e lo sa anche lui, forse meglio di tutti, che questa squadra non aveva il guizzo per cambiare passo e se l'aveva l'ha trovato a dieci minuti dalla fine, contro un avvesario morbido che comunque nel caos ha segnato tre gol. 

    Ma difendere le scelte sbagliate fa parte del mestiere dei generali - almeno finché si combatte: mica puoi dire che hai mandato soldati semplici a farsi infilzare alla baionetta da eserciti  di terracotta, senza speranze, con le scarpe di cartone (e piedi come ferri da stiro). Non si può ammetterlo, neanche quando succede.
Fortuna che si tratta solo di prendere pallate. Ma non è il massimo neanche così.
E l'ultima partita di Marcello Lippi, un «dai dai» ai suoi nei primi minuti e poi una faccia pietrificata, è un tempo dilatato che non passa più. 

    Solo contro tutti lo è stato sempre per scelta, come un Drogo nel deserto del pallone, ma stavolta i Tartari sono dietro la porta. E Marcello Lippi che fa? Si mette davanti al plotone che gli dovrebbe sparare e dice: me lo merito, fate pure. «Mi dispiace, se una squadra perde così, è perché il suo allenatore non è stato capace di prepararla a dovere dal punto di vista psicologico e tecnico. Mi prendo tutte le responsabilità. Altre volte ci sono riuscito, stavolta no. Mi dispiace enormemente».

    Onore al vecchio generale almeno per la franchezza. Bisogna riconoscere che non è da tutti (anche se poi le mani in alto servono a spuntare le armi). A questo punto, però, prima di tutte le disamine del caso, resta una lancia da spezzare, per Roberto Donadoni, che in fondo agli Europei 2008 almeno aveva portato la Spagna ai rigori. Ma a lui invece hanno sparato tutti.

 Per una notte magica, un milione di notti prima degli esami. E' così che si vive da tifosi dell'Italia: con il patema, come la mamma di un ragazzino svogliato a scuola, non proprio somaro, ma di quelli, sempre lì sul filo tremulo del 5 e mezzo, a metà del guado tra promozione e bocciatura. Si gioca Slovacchia-Italia e siamo lì: dentro o fuori dal Mondiale. Saremo promossi agli ottavi vincendo, bocciati perdendo, rimandati pareggiando a una serie di calcoli astrusi.
    
    Mai che mettano -gli, azzurri - in carniere una media solida al riparo dai pericoli peggiori: sempre all'esame con l'affanno, con una pagina pronta sì e una no, sempre appesi alla faccia tosta e al cuore, quando non proprio a quell'altra parte, inelegante da nominare, che qualcuno considera sinonimo triviale di buona sorte.

    Ma per contare sulla risposta pronta dell'ultimo istante ci vuole sfrontatezza e quella, di solito, ce l'hanno i saltafossi con fantasia e faccia di bronzo a briglia sciolta. E noi, di quelli, in Sudafrica non ne abbiamo: sono rimasti a casa, ironia della sorte, uno (Cassano) a mettere su famiglia (e testa a posto); l'altro (Balotelli) a sostenere la Maturità davvero, su banchi veri, con professori veri.
Difficile, dunque, che la rispostona da dieci e lode arrivi da questa Italia che non è sfacciata come Franti, ma neanche saccente e diligente come Derossi (non De Rossi Daniele della Roma ma Derossi senza nome, primo della classe del libro Cuore, ché allora a scuola nessuno ti chiamava per nome). 

    A Johannesburg, per quel che s'è visto fin qui, c'è una classe senza eccessi di genialità né di "secchioneria", che forse ha studiato poco, forse ha studiato male.
E noi intanto, tutti a dire, come la mamma, che se lo meriterebbero, che gli starebbe proprio bene di tornare a casa subito con il primo volo low cost, che gliel'avevamo detto che così non bastava e ora imparano. 

    Ma poi, come la mamma, tutti lì di nascosto a pregare perché strappino almeno quel sei sparagnino appena appena, con lo studio matto e disperatissimo dell'ultimo giorno, con la pedata dell'acqua alla gola, giusto il tanto che basta per sfangare l'ammissione all'esame, cioè agli ottavi di finale, e poi si vede. Una prova dopo l'altra, una partita dopo l'altra, un patema dopo l'altro. 

    Il guaio è che se la risposta esatta non arriva, se il compagno non fa copiare, se il prof è proprio carogna, se nessuno tira in porta, anche con Gattuso che si danna l'anima non per 11 ma per 22, c'è il rischio che non basti il cuore. Due pareggi con identico punteggio tra Italia e Slovacchia e tra Paraguay e Nuova Zelanda vorrebbero dire, alla lettera, delegare il passaggio del turno al capriccio di una monetina: un sorteggio crudele tra testa (ormai perduta) e croce (da portare).

    E, dopo, casomai finisse bene, ci sarebbe ancora da rimpiangere che la monetina non abbia i piedi, perché nel pacchetto della buona sorte, per andare oltre, servirebbe più di tutto uno stock di piedi da primi della classe.

Chi credeva che il pallone più pazzo del mondo fosse una sfera senza cuciture denominata Jabulani si sbagliava. Il Pallone più pazzo del mondo non ha nome, ha la P maiuscola, è più rotondo che mai e rimbalza nel Girone A. Il girone è senza cuciture anche lui, ma in compenso è pieno di squarci.

    Si sono prodotti nei giorni scorsi nello spogliatoio francese.  Più o meno così: Anelka manda a spasso il Ct Domenech, prendendola alla larga cioè prendendosela con la mamma del ruvido generale che comanda in panchina. In linea teorica la vicenda dovrebbe rubricarsi alla voce "gentilezze" da spogliatoio (se anche si viene alle mani, fuori non si dice e finisce lì).  Ma i cronisti francesi lo vengono a sapere. Il Ct la prende male e la Federazione francesce richiama in patria il soldato ribelle Anelka. La squadra anziché isolare il disertore, spedisce Domenech in conferenza stampa con l'ambasciata di un comunicato di solidarietà a favore di Anelka. Le regole della Fifa vorrebbero che il comandante Domenech andasse davanti ai giornalisti accompagnato dal fedele capitano, ma il capitano è Evra, l'uomo sospettato di aver spifferato la storia del complimento in spogliatoio. E in conferenza stampa non ci va. Sciopera alla testa della squadra. Fine del riassunto delle puntate precedenti.

    Alla fine è andata come da pronostico: Uruguay prima, Messico seconda, Francia e Sudafrica fuori. Ma il pronostico prevedeva un banale, gelido e calcolatissimo pari tra le prime due, in quel caso qualificate indipendemente dall'esito di Francia-Sudafrica. Invece l'Uruguay ha vinto e i francesi, ammutinati nel Bounty, per metà partita per poco non hanno provato a spingere il Sudafrica agli ottavi di finale. Ma bisognava prendere 4 gol, troppa fatica per una squadra in sciopero.  Alla fine Les Bleus si sono accontentati di perdere 2-1 e di spedire a casa Domenech.

    Adesso dovranno convocare una lunga assemblea per capire come scendere dall'aereo a Parigi: barricarsi? Dirottarlo? Chissà. Si dice che all'uscita "Arrivi" dell'aeroporto Charles De Gaulle sia appostata, alla testa dei telespettatori francesi, la mamma di Domenech

Premessa doverosa: la partita dell'1 a 1 tra Italia e Nuova Zelanda è stata una delle più brutte di tutti i tempi, da che football è football. Il fatto che in Italia sia saltata in alcune regioni la diretta televisiva risponde probabilmente a una vendetta degli dei del calcio (Brera direbbe di Eupalla) di fonte a disumani obbrobrii degli umani.

     Infinitamente più colpevoli dello scempio gli azzurri, troppe volte campioni del mondo per potersi permettere certe cosacce. Se si pensa al teatro planetario, all'attesa enorme, al nostro lignaggio, alla particolarità del match disputato quando si sapeva già del 2 a 0 di Paraguay-Slovacchia, è persino possibile pensare all'incontro come al peggiore in assoluto della storia pallonara. Il che, sia subito chiaro, non vuol dire nulla, essendo che più cresce la posta, il che accade fisiologicamente nei tornei grandi e lunghi, più il calcio prilla sulle proprie assurdità, sulla propria casualità, anche sulle proprie magie, più si avvita sul proprio mistero di sport povero di gesti atletici e però capace di emozionare tutta la terra, fornendo sorprese continue, magari in positivo.

     L'Italia poi è maestra di avvii di torneo non si sa se più penosi o più pietosi (dipende dal grado di affetto per gli azzurri, almeno per quel che concerne noi italiani non padani), ed intanto è docente di lieto fine in lieto fine spesso agguantato comunque, quantunque.

      Adesso, dopo avere lanciato i kiwi in alti cieli emotivi e statistici, ci tocca la Slovacchia, il 24, in contemporaneità con Paraguay-Nuova Zelanda. Il copione dell'attesa ma anche dell'angoscia, della speranza ma anche della paura, sembra perfetto. Lippi non è additato come il più empio degli italiani sol perché si teme un bis del suo trionfo di quattro anni fa. Si teme intanto che - ovvio - si spera.

     Montolivo ha preso un palo, l'arbitro ci ha dato per il pari un rigore giusto però di quelli che in Italia non sono fischiati mai, abbiamo tirato un migliaio di inutili corner, Buffon è sceso in campo alla grande però travestito da portiere neozelandese, era meglio se Cannavaro si chiamava Paolo fratello del Napoli anziché Fabio prossimo arabo. Lippi ha sbagliato tutto, come previsto da quasi tutti, ma siccome più in basso non si può andare, la matematica non ci condanna ancora, l'Italia del calcio ha sette mila vite e sette milioni di viti per rimettersi insieme, bisogna andare cauti prima di fare (noi quaranta milioni di cittadini del Bel Paese, al netto dei padani) gli arrabbiatissimi perché il Commissario tecnico è lui e non invece tutti noi.

Gian Paolo Ormezzano

Le facce portano senso e quella di Fabio Capello, un attimo prima di farsi inghiottire dalla pancia dello stadio all'intervallo, prometteva discorsi poco concilianti. Nella migliore delle ipotesi qualcosa che potrebbe suonare più o meno così: «Io non faccio minacce: io dico semplicemente che l’onore della parrocchia è nelle vostre mani. Anzi, nei vostri piedi. Ognuno faccia il suo dovere. Se poi, naturalmente, c’è qualche barabba che non ce la mette tutta fino all’ultima goccia, io mica faccio le tragedie di Peppone che spacca le facce! Io gli polverizzo il sedere a pedate!».

Per chi non avesse capito è il discorso di don Camillo ai ragazzi della Gagliarda impegnati contro la squadra di Peppone. Un guizzo da scrittore, che però va benissimo per descrivere tutti gli allenatori imbufaliti del mondo (più o meno), incluso Fabio Capello, ingrugnito come non mai (anzi come quasi sempre), nel suo abito grigio, durante Inghilterra-Algeria.

Il grigiore del resto è la tonalità perfetta per descrivere la condotta delle presunte grandi, finora a questo Mondiale. Fatta salva l'Argentina del colorito Maradona, le favorite suonano un'armonia (e neanche tanto intonata) in grigio e in silenzio, a dispetto dei colori delle maglie.

Inghilterra-Algeria in questo è una tavolozza di colori puri: il bianco (smorto) degli inglesi, il verde (più brillante, forse mimetico sull'erba) degli algerini. Completano il quadro l'arbitro vermiglio e i portieri giallo l'inglese, violetto l'algerino, l'uno e l'altro nuovi di zecca, dopo le spaperazzate dei loro compagni blasonati e decaduti.

Ma l'arte finisce lì, il resto è l'onesto artigianato con qualche ambizione degli algerini e pennellate piuttosto confuse degli inglesi, che rispetto al tempo della qualificazione hanno perso un po' di uomini per strada e smalto a brandelli. Nemmeno Rooney, miglior marcatore del Regno, riesce a svegliare lo sguardo desolato dei principi Harry e William in tribuna, anche perché non è che là davanti gli arrivino tanti palloni.

Un film già visto: le piccole si arrangiano come possono e le grandi cadono come mosche spruzzate d'insetticida: la Francia sta già restituendo la qualificazione rubata (improbabile che Uruguay e Messico, scontrandosi alla prossima partita, si lascino scappare l'occasione di pareggiare e passare insieme agli ottavi); l'Italia non ha ancora trovato il modo di tirare in porta neanche in allenamento; la Germania si è giocata con la Serbia tutto il credito costruito contro l'Australia; la Spagna le ha buscate dalla Svizzera.

Fabio Capello strepita dal primo all'ultimo minuto ma è come in quei sogni in cui la voce non esce. In panchina Beckham si dispera: anche lui sta nel mezzo di un incubo, speculare a quello di Capello, un sogno di quelli in cui si vorrebbe correre ma le gambe non si muovono. Lui saprebbe dove correre e come, ma non può ha il tendine d'Achille rotto e deve stare a guardare da fuori lo sfascio, accontentandosi del ruolo mesto quanto inutile di capitano non giocatore.

Il guaio è che quando domattina si sveglieranno sarà tutto vero.

La carica dei 101... Gol non cuccioli, selezionati da Adriano Angelini tra quelli che hanno fatto la storia del calcio italiano. C'è anche un po' d'azzurro e, siccome l'idea è carina, abbiamo chiesto ad Angelini, autore per Newton Compton di 101 gol che hanno cambiato la storia del calcio italiano, di guardare con noi questo primo stralcio di Sudafrica 2010, per vedere se ci ha già lasciato qualcosa di memorabile.

Dunque?
«Nulla: stiamo assistendo a una "mourinhizzazione" del calcio, squadre che si asserragliano con 11 giocatori davanti alla porta e ripartono. Solo che davanti l'Inter aveva Milito e mica tutti ce l'hanno. Per le piccole contro le grandi è quasi inevitabile, ma tutto questo penalizza lo spettacolo. Messi qualcosa di bello ha fatto vedere ma si spera sia solo l'inizio».

Cresciute le piccole o ridimensionate le grandi?
«Direi più cresciute le piccole, hanno imparato almeno a difendersi».

Che cosa deve avere un gol per cambiare la storia?
«Caratteristiche diverse. C'è un'importanza oggettiva dovuta alla capacità di sbloccare una partita che conta: un gol decisivo lascia sempre più segno di quanto non lasci un gol pur bellissimo sul 4-1. Certo, esiste un criterio estetico, ma è un segno più labile. Il massimo è il gol di Maradona all'Inghilterra nel 1986, con Diego che scarta tutta la squadra e va in porta, forse è il gol più bello della storia ed era anche importantissimo sul piano del risultato. Questo non toglie che per la Corea del Nord sia storico il gol segnato al Brasile, nonostante la sconfitta e l'influenza nulla ai fini del risultato. Ma la cosa che rende davvero memorabile un gol è la carica emotiva che lo precede. Si pensi a Grosso che sblocca contro la Germania in semifinale mondiale. Una rete coraggiosa, determinante e pure bella uscita da un'azione confusa e capace di portarti in finale mondiale».

Il gol mondiale più importante della storia azzurra?
«Quello dell'urlo di Tardelli: 1-0 e poi quell'urlo. Vuoi mettere. Adesso per esultare fanno il balletto, carino. Ma non c'è confronto».

Si può scegliere un gol per criterio emotivo?
«Sì, quello di Scirea che in Nazionale nel 1980 parte dalla difesa e va in porta da solo non era determinante ma l'omaggio a un campione straordinario che non c'è più, capace di un gol bello e raro. Anche quello di Agostino Di Bartolomei è un omaggio ma era anche un gol di peso per il prosieguo della Roma in Coppa Campioni».

Torniamo al Sudafrica, neanche le papere passeranno alla storia?
«Quella di Green sì. Il povero portiere inglese ha fatto una cosa così terribile e tenera che bisogna almeno riconoscergli il merito dell'immortalità. È crudele ma ai portieri succede così».

E poi che altro ricorderemo, a parte tutto quello che deve ancora succedere?
«Le vuvuzelas, molestissime, ma evocative del fatto che l'Africa non è solo i colori che ci aspettavamo e la povertà, che c'è, ma che si cerca (come sempre in questi casi di non mostrare), ma è anche rumori e suoni».

Italia-Paraguay. 1-1. Il primo della classe ha preso sei, il penultimo della classe ha preso sei. Va da sé che non è proprio la stessa cosa. Il bicchiere a casa del Paraguay ha ragione di essere mezzo pieno, quello di casa Italia fatalmente mezzo vuoto. Non sono tante le partite in cui si possono aspettare 40 minuti per vedere un tiro in porta. Se poi il tiro non è dei campioni del mondo ma degli altri e se quella volta la mettono pure dentro si mette maluccio. Va a finire che lo zero a zero diventa il migliore dei mondi possibili, la massima aspirazione ragionevole. E non è che si vada lontanissimo così.

    Ammesso di passare i turni, senza mirare mai allo specchio della porta restano solo - gol di rapina a parte - i rigori come un miraggio cui aggrapparsi alla fine di tutto. Ma non è mica sempre domenica, men che meno il 9 luglio 2006 (per la cronaca l'unica volta nella sua storia che l'Italia ha messo dentro cinque rigori su cinque). Per 55 minuti zero tiri nello specchio, dalla parte azzurra: in compenso tre facce che dicono più delle parole che le vuvuzelas fanno morire in gola: il ghigno di De Rossi, il grugno di Lippi, lo sguardo perso di Gilardino.

    Poi arriva un tiro centrale di Montolivo (che fin li' ha fatto il suo), poi - si' - De Rossi segna pure, ma di là c'è una squadra che lotta limitandosi a ostruire (la cosa che una volta si chiamava catenaccio), senza tanto contropiede però (adesso chissà perché si chiama ripartenza): una volta rubata palla spesso il Paraguay non sa tenerla, la lascia andare come una brace che scotta. E non è un gran vanto non saperne approfittare. Non va male la costruzione del gioco all'inizio della partita, ci si riprende alla fine un po' perché i paraguayani si stancano, un po' perché c'è voglia di recuperare anche tirando da fuori.

    Ma non è che seguendo il consiglio del telecronista che invita a sparare nel mucchio si trovi la soluzione per andare avanti alla maniera degna dei campioni del mondo. Si finisce con foga. Restano un paio di tiri da lontano e un paio di lisci, uno di Di Natale all'87° e un tentativo di rovesciata di Pepe troppo ambizioso per essere anche verosimile. Un po' poco per gli eroi del 2006. Fino a 20 metri dalla porta può andare, ma qualcosa bisogna inventarsi da li' in poi, possibilmente prima che sia troppo tardi. Seguiranno giorni di critiche e giustificazioni, di appallottamenti a riccio, e c'è chi dice che sia proprio quel che serve per alimentare la voglia di rivalsa. Se va bene anche stavolta la chiameremo la nazionale porcospino.

Ci siamo. E' quasi ora. Si può togliere l'audio, spegnere le parole e aspettare i fatti, cioè i rimbalzi del pallone. Alla fine contano solo quelli. L'Italia esordisce alle 20,30 a Città del Capo contro il Paraguay. Ad azzerare le voci anche in campo ci pensano già le "vuvuzelas", le moleste e colorate trombette che i tifosi sudafricani non fanno mancare in sottofondo a nessuno.
  
     Che non valgano come scusa per sbagliare passaggi è chiarissimo da ieri sera: hanno provato ad accamparne i francesi, dicendo di non trovarsi tra compagni perché incapaci di parlarsi in campo, li hanno smentiti i tedeschi: identico sottofondo tutt'altra partita. Neanche loro si sentivano, ma con i piedi si sono trovati a memoria.

     Ecco, a proposito di tedeschi e del loro 4-0 di ieri sera, stasera contro il Paraguay non aspettiamoci la goleada: non è mai stata nelle corde degli azzurri, mai in generale, men che meno in avvio. Solo una volta, lontanissima nel tempo, all'esordio degli esordi, nel Mondiale 1934, un 7-1 contro gli Stati Uniti e poi mai più. L'Italia per abitudine parte piano, ora bene ora male, ma piano. La cabala dice che è meglio male, ma vale a stagioni alterne: non valeva per il 2006. In Germania gli azzurri esordirono felicemente con un 2-0, stesso risultato dell'unico precedente mondiale con il Paraguay, in data 1950 (Mondiale azzurro tenebra però).  Nel 1982 furono tre pareggi e un passaggio del turno per differenza reti appena appena sul Camerun e nel 1994 fu un 1-0 preso dall'Irlanda, salvo poi andare avanti fino in finale.

     Cabala a parte, per lapalissiano che sia, sempre meglio mettere punti in carniere, specie in un Mondiale in cui non si nota al momento differenza abissale tra squadre blasonate e squadre che un tempo si chiamavano "materasso" e che a quanto pare non ci sono più. Tra quelle che hanno quasi brillato c'è una Corea del Sud che sulla carta nessuno si aspettava. Casomai dovesse capitare d'averla sulla rotta, farà bene l'Italia a diffidare di quella parte di mondo, da anni giustiziera privilegiata delle notti azzurre (ma stavolta sta dall'altro lato del tabellone). Per intanto c'è il Paraguay, che digrigna i denti e promette vita dura. Alle 20,30 sapremo quanto. Ma molto di quel quanto dipenderà dall'intensità dell'azzurro.

A sentire i portieri alla vigilia, sembrava che il pallone dei Mondiali facesse gol da solo. Contro lo Jabulani (il pallone di Sudafrica 2010) hanno tuonato un po' tutti: da Buffon a Casillas, passando per Julio Caesar. Mica gli ultimi: i migliori portieri del mondo, convinti che con quel nome che vuol dire "festa" fosse nato per fare la festa a loro.

     Dalle partite d'esordio non sembrerebbe che il nuovo pallone faccia miracoli ai danni dei numeri uno, ma forse prima di pronunciarsi bisognerebbe chiedere al povero Green, portiere inglese autore di una papera storica contro gli Stati Uniti. E intanto l'uomo della strada si chiede: ma un pallone non è un pallone? E che cosa c'è di tanto diverso da un mondiale all'altro? Di diverso c'è, e questo lo capiscono tutti, il colore con il conseguente effetto collaterale di farlo desiderare ai ragazzi come "il pallone del Mondiale" alla stregua di un oggetto di culto capace di innescare un pingue giro d'affari. Ma non tutto si riduce alla scorza: la tecnologia ha un peso consistente e dalla sfera di cuoio imperfetta, con tanto di sutura a tenere la camera d'aria, protagonista della rovesciata di Silvio Piola, ha fatto un sacco di strada. Perdendo via via: peso, asperità e cuciture.

    Colore a parte, siamo lontani anche dal pallone con i pentagoni bianco e nero: il pallone per antonomasia per i bambini  che da trent'anni giocano con il Supertele nei cortili: un blocco unico di gomma liscia che simula i pentagoni (su fondo bianco, rosso, giallo, blu.  Va dove ne ha voglia ma è quasi innocuo: si tratti di una pallonata in faccia o dei gerani della signora Pina.  Lo Jabulani è diverso anche dai suoi colleghi degli anni Ottanta e Novanta, già privi di pentagoni, Tango, Azteca e Etrusco, che cambiando nome e poche caratteristiche sono rimasti in servizio per una ventina d'anni.

     Lo Jabulani ha una parentela abbastanza stretta con il collega del 2006 Teamgeist che, ormai privo di cuciture e sempre più simile a una sfera perfetta, piace poco ai portieri. Anche nel 2006 se ne lamentavano, accusandolo di essere una saponetta soprattutto se bagnato. Per confrontare i palloni di ultima generazione si sono scomodati i fisici dell'Università di Adelaide in Australia. «Sappiamo che i portieri trovano lo Jabulani ingannevole e imprevedibile, e questo non ci sorprende», dichiara il professor Derek Leinweber della Scuola di fisica e chimica dell'ateneo, che ha comparato le caratteristiche aerodinamiche del pallone usato nei Mondiali del 2006, con quelle della nuova sfera formata da 8 pannelli termosaldati con superficie mini-corrugata: una tecnologia detta "grip and groove" che secondo l'azienda produttrice consentirebbe una miglior precisione nei tiri e nel controllo della palla. 

    «Lo Jabulani», spiega il professore, «presenta una rotondità quasi perfetta ed è disegnato per avere tutta la turbolenza attorno a sé. Viaggia con più velocità, più effetto e più potenza», ha detto il fisico al quotidiano The Australian. «La sua velocità e la tendenza a deviare improvvisamente faranno entrare in rete un numero maggiore di tiri da lontano. I cross in area di rigore viaggeranno più veloci, privando i portieri di preziose frazioni di secondo per parare i colpi di testa. Quando si tratterà di "tagli alla Beckham", tuttavia, non è stata osservata alcuna differenza discernibile fra Jabulani e Teamgeist». L'Adidas, sponsor tecnico replica che: «Lo Jabulani risponde a pieno a tutti gli standard che la Fifa impone per l'approvazione del pallone, e i test condotti dall'Università di Loughborough ne dimostrano l'estrema stabilità e precisione». La controprova non c'è, e neanche Beckham, ma consola sapere che tocca a tutti lo stesso pallone. Mal comune...

C'è un filo di Italia al Mondiale del Sudafrica. E non è quello che ha tessuto le maglie azzurre destinate all'esordio di lunedì. Si, certo anche quello, ma c'è anche un filo più robusto: il cavo che traina la funicolare panoramica che percorre l'arco che sovrasta lo stadio di Durban. La funicolare è stata realizzata da un'azienda specializzata altoatesina, la Doppelmayr.  Ha 25 posti e corre sull'arco bianco alto cento metri, che attraversa lo stadio come il manico di un enorme cesto, e si ferma nel punto più alto e panoramico della città. Ha una cabina in vetro ed è dotata di un sistema di livellamento automatico, per restare sempre orizzontale, anche quando la curvatura dell'arco cambia.

     Poi, ovviamente c'è la coppa del mondo, partita alla volta di Johannesburg avvolta in una teca griffata. La coppa è un prodotto made in Italy, disegnata dal maestro Silvio Gazzaniga, viene prodotta dalla Gde Bertoni, la fabbrica di Paderno Dugnano che dal 1972 per conto della Fifa realizza il prezioso trofeo. E fin qui, probabilmente si tifa azzurro.

     Ma non manca neppure il tifo arcobaleno sulla porta di casa nostra: l'Italia infatti ospita una piccola ma intraprendente comunità sudafricana che ha messo radici e sicuramente ha esultato per la splendida prima rete del Mondiale realizzata da Thabalala. Secondo una ricerca della Camera di commercio di Milano sono 300, su 630 circa residenti sul territorio nazionale, i sudafricani titolari di piccole ditte individuali, concentrate soprattutto tra Roma (109) e Milano (68). Le attività di cui si occupano sono varie: allevatori, coltivatori, traduttori interpreti, affittacamere, parrucchieri, tecnici informatici. Ma la maggior parte opera tra: commercio (27,%), attività manifatturiere (15,1%), costruzioni (9,9 %) alberghi e ristoranti ( 9,6%). La presenza più numerosa è in Veneto (11% del totale), Lazio (10%), Lombardia (10%) Toscana (10%).

     L'identikit dell'imprenditore sudafricano in Italia ritrae un maschio (65% dei casi), di età compresa tra i 30 e i 59 anni, invece tra i residenti prevalgono di poco le donne. Da qualche giorno a Milano, sudafricani doc e italiani curiosi, hanno a disposizione South Africa House, in via Monte Nero 55. Inaugurata da Lance Littlefield, direttore dell'Ufficio del turismo sudafricano, sarà la casa del Sudafrica per tutto il Mondiale: offre informazioni a tutti coloro che abbiano curiosità per il Paese arcobaleno, nonché schermi accesi sulle partite e... "vuvuzela" rosse fino ad esaurimento. Contrariamente a quanto possa sembrare dal chiasso che avvertiamo via Tv e via radio dagli stadi, il primo soffio nell'ormai celebre trombetta dei tifosi sudafricani non è semplice come sembra. I più al primo tentativo si sfiatano in un comico soffio perfettamente muto.   

Dedicato a tutti quelli che pensano che il calcio sia l’insensato affannarsi di 22 sfaccendati in brache corte dietro a una palla. Dedicato anche a quelli che sugli spalti di uno stadio danno senso alla loro esistenza, in mancanza di meglio, facendo “buu” all’avversario di colore diverso. 
    
    Gli uni e gli altri farebbero bene a leggere Molto più di un gioco. Il calcio contro l’apartheid (Iacobelli edizioni), libro scritto a quattro mani da due storici americani: Chuck Korr e Marvin Close. È la storia di un gruppo di prigionieri politici che hanno salvato la loro dignità di uomini ottenendo il permesso di far rotolare una palla dentro Robben Island, la prigione sudafricana simbolo della segregazione razziale, che mischiava criminali comuni e detenuti colpevoli di essere nati neri e di non essersi arresi al sistema.
    
    Mescolati secondo una filosofia carceraria che stava a metà strada tra l’isolamento di Alcatraz e l’abbrutimento di Auschwitz. È la storia di persone che, nell’ostinarsi a organizzare un torneo di pallone, fra gli anni ’60 e ’80 hanno imparato la solidarietà, il rispetto di sé e delle regole del giusto processo, e che hanno trovato, con mezzi pacifici, dignitosi e intelligenti, il modo di insegnare con l’esempio anche alle guardie più ottuse un altro sguardo sul mondo e, dunque, sul loro Paese. 
    
    Gli stessi autori nel 2007 hanno dedicato alla vicenda un film, More than just a game, diretto da Junaid Ahmed. Salvarsi dai lavori forzati sull’isola non è stato facile, ma molti ex detenuti hanno fatto strada. Se il Sudafrica ha avuto Mondiali di calcio è anche merito loro. Marcus Solomon ha fondato il Children’ Resource centre. Sedick Isaacs è un luminare dell’informatica medica. Dikgang Moseneke ha redatto la Carta costituzionale della Repubblica Sudafricana e Jacob Zuma dal 2009 di quella Repubblica è presidente. 
    
    A Robben Island in quegli anni, in isolamento, c’era anche Nelson Mandela. Nel silenzio ha sicuramente osservato. Diventato presidente ha saputo mettere a frutto il potere pacifico della palla, nel suo caso ovale. Il seme germogliato nella storia che ha dato vita al film Invictus, probabilmente, era stato seminato qui.

Tutto ma davvero tutto il mondo dello sport fu costretto ad accorgersi dell'apartheid sudafricano, nato nel 1948,  soltanto nel 1976, alla vigilia immediata dei Giochi di Montréal, Canada. Il mondo olimpico aveva provveduto “di suo” a vietare al Sudafrica i Giochi da Tokyo 1964, finalmente accorgendosi che la carta del Cio escludeva dalle competizioni chi operasse discriminazioni dovute, fra l'altro, alla razza. 

    Quattro anni dopo, approfittando della distrazione dei membri dello stesso Cio, il presidente di allora, lo statunitense Avery Brundage, bianco con inclinazioni neppure troppo vaghe al razzismo (era stato ammiratore abbastanza esplicito di Hitler), aveva ottenuto la riammissione con una sorta di voto epistolare: grande sollevazione in occasione dei Giochi invernali di quel 1968 a Grenoble, Francia, da parte dei membri del Cio “ingannati”, burocrazia sconfitta, sudafricani sempre fuori. 

     Però continuava ad esserci un Sudafrica accettato e frequentato in sport non olimpici, quali il golf, il tennis, il rugby, l'automobilismo e il motociclismo, con rapporti costanti con tanto mondo che riusciva a non accorgersi di niente. E c'era pure un forte pilota sudafricano di formula 1, Jody Scheckter. Nel 1974 la squadra italiana di Coppa Davis aveva giocato a Johannesburg una semifinale, finendo sconfitta: qualche protesta da sinistra, nel Bel Paese, niente di più. Quanto a Scheckter, aveva esordito in Formula 1 nel 1972, segnalandosi per bravure assortite ma anche per scorrettezze gravi: nessun ostacolo comunque, nel mondo dei motori, alla sua presenza. 

     E arriviamo appunto al 1976, quando i capi dell'associazione sportiva degli stati africani si accorsero che era a Montréal per prendere parte ai Giochi la Nuova Zelanda, nazione che nel rugby intratteneva stretti e continui rapporti con il Sudafrica, più stretti di quelli intrattenuti da altri paesi, su tutti l'Australia, e addirittura sfacciati. Fu subito chiesta l'interdizione dei neozelandesi, il Cio disse di no – il rugby non lo riguardava, non era olimpico... - temendo altre richieste di esclusione, trentadue stati africani lasciarono i Giochi (restarono soltanto Senegal e Costa d'Avorio). 

    Per il resto tutto andò avanti come prima e Scheckter, secondo sulla Wolf nella classifica mondiale 1977, dietro a Niki Lauda su Ferrari, nel 1979 passò alla casa italiana, per la quale conquistò subito un titolo iridato che ebbe una valenza statistica fortissima: infatti, ritiratosi Sheckter nel 1980,  soltanto con Michael Schumacher, e nel 2000, la Ferrari tornò al sucesso finale in F1.  Insomma, apartheid a due marce anche nello sport: però almeno quello olimpico riuscì a chiarirsi tutto, e per rientrare nei Giochi ci volle, dell'apartheid, la fine ufficiale, con porte riaperte  per l'edizione olimpica di Barcellona 1992.

Gian Paolo Ormezzano

Ha esposto le sue opere nei più grandi musei del mondo, ma continua a vivere nel suo villaggio, in Sudafrica, insegnando a dipingere alle ragazze della tribù Ndebele. Esther Mahlangu è una donna fiera e solare, tenace sostenitrice dei valori della sua cultura. La Fifa l’ha scelta come testimonial ufficiale per i Campionati del mondo che si terranno quest’estate nel suo paese, commissionandole una serie di 13 dipinti sul tema del calcio che saranno esposti proprio nella sede della Fifa, a Città del Capo. 

    Anche in Italia è possibile conoscere da vicino l’artista africana grazie a una mostra itinerante  in tre tappe dal titolo La Regina d’Africa  (fino al 6 settembre a Cadenzano, Cuneo e Sant’Alessio Siculo). La consacrazione di Esther Mahlangu come artista di livello internazionale è avvenuta nel 1989 con la mostra tenutasi al Centre Pompidou di Parigi dal titolo Magiciens de la terre e, da quel momento non si contano le sue mostre nei più importanti musei del mondo. 

    Le sue opere sono presenti nelle più prestigiose collezioni private . Tra i suoi lavori più significativi, la facciata del palazzo della BMW a Washington, l’automobile dipinta per la collezione internazionale della BMW, nella quale compare insieme ad artisti del calibro di Andy Warhol, la nuova FIAT 500 per la collezione Agnelli, le decorazioni sulle code degli aerei della British Airways e il suo affresco alla Biennale di Lione in collaborazione con Sol Lewitt. 

    Esther Mahlangu è nata nel 1935 a Middelburg, Mphumalanga, in Sudafrica, ed appartiene alla tribù Ndebele, che raggruppa vari gruppi etnici diffusi nello Zimbabwe occidentale e nella regione del Transvaal a nord-est del Sud Africa. Ha cominciato a dipingere a soli dieci anni, seguendo gli insegnamenti della madre e della nonna, e da allora non ha più smesso perché, come lei stessa racconta, la sua arte la fa sentire «molto felice». 

    Prima di essere notata dai critici, dipingeva i muri  interni ed esterni delle case del  villaggio, seguendo la tradizione della sua tribù, per la quale l’arte della pittura è riservata alle donne. Anche oggi che è famosa continua ad andare in giro col turbante, gli anelli di rame che le allungano il collo, il feltro coloratissimo che le avvolge il corpo e le collane di perline di vetro. Non usa pennelli, ma solo penne di gallina, sia per tracciare il segno geometrico che caratterizza i suoi dipinti che per spandere i colori. Ne risulta un genere di pittura che, pur rifacendosi al passato, ci appare  di una straordinaria contemporaneità. 

    In un primo tempo, proprio per questa tendenza geometrizzante, è stata considerata una pittrice astratta, ma lei stessa ha smentito questa definizione spiegando che gli elementi della sua pittura non sono altro che stilizzazioni della realtà che la circonda, dove entrano natura, animali e le storie quotidiane della vita del villaggio. La sua casa oggi è meta dei pellegrinaggi dei turisti. Per trovarla hanno esposto un cartello che recita così: «Qui abita Esther Mahlangu, la prima donna Ndebele che ha attraversato i mari».

Simonetta Pagnotti  

Le tappe della mostra  

ESTHER MAHLANGU La Regina d’Africa 
28 maggio – 27 giugno 2010 Calenzano (FI), START - via Garibaldi, 7  
5 giugno – 31 luglio 2010 Cuneo, Palazzo Samone  - via Amedeo Rossi, 4  
16 luglio – 6 settembre 2010 Sant’Alessio Siculo (ME), Villa Genovese – via Lungomare  

Per informazioni: Fondazione Sarenco, tel. 0365.525840; fondazionesarenco@libero.it   www.fondazionesarenco.com    

Segui il Giubileo 2025 con Famiglia Cristiana
I vostri commenti
2

Stai visualizzando  dei 2 commenti

    Vedi altri 20 commenti
    Policy sulla pubblicazione dei commenti
    I commenti del sito di Famiglia Cristiana sono premoderati. E non saranno pubblicati qualora:

    • - contengano contenuti ingiuriosi, calunniosi, pornografici verso le persone di cui si parla
    • - siano discriminatori o incitino alla violenza in termini razziali, di genere, di religione, di disabilità
    • - contengano offese all’autore di un articolo o alla testata in generale
    • - la firma sia palesemente una appropriazione di identità altrui (personaggi famosi o di Chiesa)
    • - quando sia offensivo o irrispettoso di un altro lettore o di un suo commento

    Ogni commento lascia la responsabilità individuale in capo a chi lo ha esteso. L’editore si riserva il diritto di cancellare i messaggi che, anche in seguito a una prima pubblicazione, appaiano  - a suo insindacabile giudizio - inaccettabili per la linea editoriale del sito o lesivi della dignità delle persone.
     
     
    Pubblicità
    Edicola San Paolo