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giovedì 03 ottobre 2024
 
 

Dossier - La pace oltre la marcia

17/05/2010  Lungo i 24 chilometri da Perugia ad Assisi emergono volti e vicende che vanno al di là del 16 maggio e sono altrettanti impegni verso il prossimo appuntamento del 2011.

4.500 studenti e 500 insegnanti. Probabilmente il più grande meeting di scuole che si sia tenuto quest’anno. Tanti sono stati i ragazzi e i giovani che hanno affollato Perugia in questi tre giorni, per il Forum e per la Marcia della Pace. È un’altra delle nuove iniziative ideate dalla Tavola della pace per l’edizione 2010 della Perugia-Assisi.

    Queste migliaia di studenti (delle scuole elementari, medie e superiori) sono giunte nel capoluogo umbro per coronare un lavoro partito da lontano: «Durante tutto l’anno scolastico le classi di questi ragazzi e giovani hanno lavorato sul tema “Cittadinanza e Costituzione”, che sono secondo noi due delle parole chiave per costruire una nuova cultura».

    Le parole sono di Aluisi Tosolini, preside al Liceo scientifico “Attilio Bertolucci” di Parma. La sua è una delle scuole che ha partecipato all’iniziativa. «Gli incontri di Perugia», continua Tosolini, «hanno avuto lo scopo di portare a conclusione il lavoro svolto, con tre obiettivi: condividere insieme agli altri studenti di tutta Italia il lavoro svolto; mettersi in ascolto dei testimoni e dei protagonisti intervenuti al Forum della pace; progettare per il futuro elaborando 100 idee per un’agenda di pace. È la sfida educativa. Lo scopo finale di questo lavoro nelle scuole, che continuerà l’anno venturo, è di restituire la scuola alla società, riportarla ad essere luogo che produce cultura, non solo nell’apprendere, ma anche per le competenze e le azioni. In altre parole, il progetto cerca di far comprendere ai ragazzi che quel mondo grande che nelle aule scolastiche impariamo a conoscere è un mondo piccolo come la loro scuola, perché è dalle loro specifiche realtà che nascono le idee e le iniziative di pace, di convivenza, di esercizio dei diritti».

    Il preside di Parma condensa il senso del progetto rivolto alle scuole con una frase di Eleanor Roosevelt, la first lady del Presidente degli Stati Uniti: “Non basta parlare di pace, uno ci deve credere. E non basta crederci, uno ci deve lavorare”.

Terra del Fuoco è nata qualche anno fa, dapprima operando sul problema dell’integrazione di rom e stranieri e organizzando il “Treno della memoria”, ossia portando in visita ad Aushwitz scolaresche e gruppi. Ne hanno accompagnati più di 11.000.

    I giovani membri dell’associazione il Treno della memoria lo organizzano ancora, ma ora fanno anche molto altro. Intanto sono parte della rete di Libera, l’associazione contro le mafie e l’illegalità fondata da don Luigi Ciotti. Ma quest’anno sono anche entrati nel folto gruppo di associazioni che hanno organizzato insieme alla Tavola della pace, alla stessa Libera e a tanti ragazzi dell’Agesci, il Forum della pace.

    «L’organizzazione si è molto estesa: ora siamo presenti in 10 regioni italiane», dice Michele Curto, uno degli animatori dell’associazione. «Qui a Perugia siamo venuti in 350, fra volontari, rifugiati e rom. Siamo presenti non solo come Terra del Fuoco, ma anche come Flair, l’organismo europeo per la lotta alla mafia e alla legalità, a cui aderisce anche Libera».
 
     Il contributo più originale al Forum della pace di quest’anno è stato senz’altro il Progetto “Le 100 storie, i giovani che cambieranno l’Italia” (che sono state raccolte anche in un volumetto presentato a Perugia). «L’ultima definizione che ricordo di noi giovani», aggiunge Curto, «è che saremmo “bamboccioni”, come ha detto il ministro Brunetta. Ci permettiamo di dissentire. Ogni giorno, attraverso il nostro lavoro, scopriamo esempi personali di ragazzi e giovani adulti che, ciascuno nella propria vita e nella propria storia, mettono in atto scelte e azioni che sono autenticamente positive, innovative e coraggiose. Storie di una bella Italia che esiste già, che non è da ricostruire. Basta scoprirla».
 
     Il volumetto presenta giovani che, in una parola, si sono assunti la responsabilità di essere cittadini a pieno titolo e di provare in prima persona a cambiare le cose. Per fare qualche esempio, c’è l’immigrata marocchina che lotta per i diritti dei migranti e il giovane imprenditore che si è inventato il “volontariato retribuito” per i dipendenti della sua azienda; c’è il quattordicenne siciliano che organizza campagne d’informazione contro la mafia e l’associazione che ha dato vita, insieme a una comunità rom, ad alcune cooperative di lavoro. Insomma storie straordinarie di quotidianità.
 
    «Queste 100 realtà», conclude Michele Curto, «vorremmo che l’anno venturo fossero 1.000. Crediamo che sia un modo significativo di celebrare i 150 anni di storia del nostro Paese: quest’Italia dell’impegno, della creatività e della solidarietà c’è. Occorre renderla meno nascosta».

Somalia, dove i giornalisti muoiono

  

La guerra civile in Somalia si combatte anche contro chi racconta ciò che sta accadendo. Negli ultimi due anni nel Paese africano sono stati uccisi 27 giornalisti, la gran parte dei quali con esecuzioni mirate.

    Nonostante ciò, è possibile fare i giornalisti in Somalia? Secondo Omar Faruk Osman è possibile, ma è molto difficile. Lui, per cercare di avere un minimo di sicurezza, vive ormai costantemente sotto scorta e intorno alla sua casa ci sono otto guardie armate. «La Somalia è diventata uno dei luoghi più pericolosi per fare i cronisti», ha detto.

    Faruk lavora in una radio di Mogadiscio, ma è anche presidente della Federazione giornalisti africani e membro del Comitato esecutivo della Federazione internazionale dei giornalisti.

    Al Forum, il giornalista somalo ha raccontato quanto sta accadendo nel Paese del Corno d’Africa: la guerra civile, in questa ultima fase, è sempre più uno scontro fra gli estremisti islamici (in particolare i miliziani che si fanno chiamare “Shebab”, che significa “i ragazzi”) e il debolissimo governo transitorio. «Dieci delle 18 province della Somalia centro-meridionale è ormai controllata dagli Shebab», ha aggiunto Faruk, «e la popolazione continua a patire sofferenze indicibili per una guerra che non sembra finire mai».

    Ora la situazione umanitaria è di nuovo gravissima. E c’è anche il rischio che nessuno sia più in grado di raccontarlo: i media occidentali non ne parlano, quelli somali sono costantemente nel mirino delle diverse milizie armate. Raccontare la guerra significa esporsi ogni giorno al rischio della ritorsione.

    A proposito di Somalia e di giornalisti uccisi nel Paese africano, a Perugia è stato rilanciato l’appello dell’Associazione Ilaria Alpi che chiede ancora una volta verità e giustizia sulla morte dei due giornalisti Rai, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio il 20 marzo 1994. L’appello chiede al mondo politico di impegnarsi per il raggiungimento della verità e chiede la riapertura del processo perché «ci sono documenti, testimonianze, informative, inchieste: un materiale enorme, accumulato in 16 anni dalle inchieste giornalistiche, della magistratura, delle commissioni d’inchiesta parlamentari e governative, che “custodisce” le prove» sui traffici di armi e rifiuti che sono all’origine del duplice omicidio. Ma anche su chi ha voluto la loro eliminazione (Per aderire all'appello: www.ilariaalpi.it).

Iraq, i non violenti ci sono ma non si vedono

Abdulsatar Younus è venuto a Perugia direttamente dalla città irachena di Erbil. È venuto per testimoniare che in Iraq, oggi, non ci sono solo i terroristi, le milizie armate e i soldati occidentali. C’è anche una rete di società civile che vuole una soluzione non violenta della guerra.

    Abdulsatar è il referente locale dell’associazione Laonf (che in arabo significa non violenza), ed è anche il presidente del network di Ong del Kurdistan iracheno. «Oggi», dice, «la situazione della sicurezza varia molto a seconda delle zone. In generale, nel Kurdistan iracheno è abbastanza buona. Le aree più pericolose sono quelle di Bagdad, Mosul, Kirkuk. Anche la situazione economica è tragica, però di questo nessuno parla».
 
    Ci può dare qualche elemento?

    «Il 24% degli iracheni, ad esempio, vive sotto la soglia di povertà. I disoccupati sono più di un milione, su un totale di 24 milioni di abitanti, donne e anziani compresi. Eppure sappiamo che l’Iraq è ricco di risorse, tuttavia a causa della guerra e della corruzione la popolazione ne è totalmente esclusa».
 
    Dal punto di vista politico si intravedono vie d’uscita?

    
«La situazione è molto complessa. Ci sono molte realtà etniche, e molti partiti. E diversi “bracci armati” di queste fazioni politiche. Anche dentro il blocco sciita le contrapposizioni sono molto forti. Inoltre, diversi Paesi stranieri stanno cercando di giocare un ruolo in Iraq».

    Qual è la vostra posizione rispetto alla presenza militare straniera?

    
«Come siamo contrari alla violenza delle diverse milizie, così lo siamo altrettanto rispetto alla presenza militare occidentale. Non è vero che l’Iraq finirebbe nel caos senza i militari della coalizione internazionale. Gli stranieri hanno ucciso migliaia di iracheni fin dal loro arrivo, nel 2003. Ancora la settimana scorsa sono state rese pubbliche immagini del 2008 in cui si vedevano soldati americani che uccidevano civili iracheni. Senza contare che all’origine della violenza dilagante delle milizie ci sono scelte del comando americano».
 
    Cioè?

    
«Nel 2003 l’esercito iracheno era il terzo più potente del Medioriente, con 3 milioni di soldati. Il comando americano ha deciso di scioglierlo. Col risultato che la stragrande maggioranza di quei militari è finita per ricomporsi nelle bande dei miliziani».
 
    In una situazione di tale violenza, che spazio c’è per un movimento pacifista?
 
    «Siamo nati da soli quattro anni, nel 2006, per iniziativa dei sindacati e della società civile. All’inizio avevano aderito solo 7 organizzazioni al movimento non violento, oggi sono 70, presenti in tutte le 18 province irachene e con 400 attivisti. Facciamo molte iniziative, fra cui le settimane di sensibilizzazione tematiche. Il movimento sta crescendo, e comincia a ottenere risultati. Sul nostro sito (www.laonf.net) pubblichiamo tutto quello che facciamo».

Iran, il colore della libertà

  

Hanno marciato anche loro. Gli esuli iraniani del movimento Verde giunti da poco in Italia. Si tratta di un piccolo gruppo che è riuscito ad arrivare nel nostro Paese per evitare la persecuzione, il carcere, la tortura, o forse la morte.

    Uno di loro, di cui non possiamo riportare l’identità, è intervenuto al Forum per raccontare la battaglia non violenta condotta per ottenere democrazia e libertà. «Milioni di iraniani si sono ribellati e sono scesi in piazza», ha detto, «per gridare che Ahmaninejad non è il nostro Presidente. Un anno fa è stato rieletto con elezioni ingiuste e truccate. Il nostro movimento è nato per combattere un governo falso e illegale».
 
    La repressione, ha spiegato il rifugiato politico, è stata durissima: «Molti aderenti del movimento verde sono stati arrestati e torturati. Diversi sono stati anche giustiziati. Ma tutto questo non ci fermerà. Vogliamo mostrare il vero volto dell’Iran: un volto pacifico, democratico e libero».

 
 
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