“Nella
stessa stanza di quattro metri per quattro siamo in 17. Qui non c’è
scelta, ci facciamo coraggio e cerchiamo di resistere”.
Chi parla è un minorenne recluso a Benghazi, una delle strutture
detentive libiche per potenziali “clandestini” in Europa. A
quello di Abdusalam si aggiunge il grido di Jhon, carcere di Ganfuda:
“Ti
tirano il cibo in faccia, ti picchiano senza alcun motivo, ti
prendono a schiaffi, ti minacciano con i fucili e le pistole,
qualsiasi libico ora ha fucili o pistole, te le puntano alle tempie”.
L’ennesima
denuncia sulle condizioni delle carceri in Libia arriva dal dossier
“0021, trappola libica” della onlus In Migrazione. 0021 come il
prefisso internazionale libico: le voci dei migranti fuggiti dal
Corno d’Africa (Somalia, Eritrea e Etiopia) hanno attraversato
le
sponde del Mediterraneo grazie ai telefonini nascosti dai
prigionieri.
In celle di pochi
metri, donne, uomini e bambini sono tenuti a pane e acqua, dormendo
per terra senza materassi. E ogni giorno sono sottoposti a
umiliazioni e vessazioni da parte della polizia: bastonature, botte,
stupri e torture. “La madre di un bambino di due anni continua a
ripetermi che non sa cosa dare da mangiare al figlio, bisognoso anche
di cure mediche”, racconta don Mussie Zerai, un sacerdote anche lui
in contatto dall’Italia con i reclusi.
"Il
censimento dei luoghi di detenzione è pressoché inesistente”, si
legge nel dossier di In Migrazione, “così come il numero di
migranti forzati che affollano questi non-luoghi. Ci hanno raccontato
di almeno 500 persone ‘accolte’ nel campo della Mezzaluna rossa a
Benghasi, altrettante rinchiuse a Kubz, 1.300 a Sabha nel deserto”.
Secondo Amnesty
International, sono 5.000 i migranti forzati rinchiusi in 17 centri
di trattenimento, che vanno ad aggiungersi ad altre 4-6.000 persone
tra carceri comuni e campi gestiti da miliziani. La Croce Rossa
invece ha visitato 60 strutture.
Uomini,
donne e bambini intrappolati a metà del viaggio, tra il deserto e il
mare, tra i Paesi di partenza e l’Europa.
Addirittura, molti detenuti del Corno d’Africa sono richiedenti
asilo politico e rifugiati già riconosciuti dall’Unhcr nei campi
profughi del Sudan. Alla faccia della protezione internazionale, c’è
chi è recluso da anni.
Da quando gli Stati
europei, e l’Italia in prima fila, hanno stretto accordi con
l’allora “amico” Ghedaffi per frenare l’immigrazione, i
militari libici hanno arrestato molti africani con retate, casa per
casa, nei quartieri popolari di Tripoli e di altre città. Altri sono
stati imprigionati dopo essere stati respinti nel Mediterraneo da
navi italiane.
Nessuno di loro è mai
stato processato davanti a un giudice: l’unica colpa è di aver
attraversato il deserto per provare a raggiungere la “Fortezza
Europa”, tecnicamente sono potenziali “clandestini” nel nostro
continente.
Da questo punto di
vista, secondo il dossier di In Migrazione, c’è piena continuità
tra la Nuova e la Vecchia Libia. Dopo il Trattato di amicizia del
2008, approvato dal Parlamento italiano con l’87% dei voti
favorevoli, l’ultimo accordo
tra Italia e Libia è
stato ratificato lo scorso 4
luglio tra
il premier Letta e il primo ministro Ali Zeidan Mohammed.
Hanno rinnovato l’accordo del 2012 firmato dal Ministro Cancellieri
(reso pubblico tre mesi dopo).
“Di fatto, l’Italia
ha scelto di delegare alla Libia il controllo delle frontiere. Ma la
Libia”, spiega Simone
Andreotti, presidente di In Migrazione, “non
contempla un sistema d’asilo, non ha mai ratificato la Convenzione
di Ginevra sui diritti dell’Uomo. Dal 2010 persino l’Unhcr è
impossibilitato al controllo del rispetto dei diritti umani.
L’ostinazione dell’Occidente a non voler vedere, rende lecite le
pratiche brutali che il Paese utilizza per il controllo
dell’immigrazione e ci rende colpevolmente complici. Dunque si
insiste su un approccio all’immigrazione che fu premessa dei
famigerati respingimenti costati all’Italia una condanna da parte
della Corte Europea dei diritti dell’Uomo”.
Tra
carceri e rastrellamenti nelle città libiche, attraversare il mare
rappresenta spesso l’unica via per tentare la salvezza. La
consapevolezza di quanto sia rischioso affidarsi ai trafficanti e
salire sulle vecchie carrette del mare è altissima tra i migranti.
Eppure, “questa
non è una vita, non posso tornare”, spiega
Teklemariam,
“non
c'è alcuna scelta, per forza devo rischiare. Per questo il viaggio
non ti fa paura, nessuno ha paura di provare il mare, tutti hanno il
desiderio di uscire dalla Libia; la cosa peggiore è vivere in Libia,
perché vivere con i libici vuol dire vivere in un incubo”.
Ogni
traversata ha un costo economico che si aggira tra i 900 e i 1200
euro. Il costo umano invece è molto più alto: prendere
il mare può voler dire andare a ingrossare le fila delle quasi
20.000 vittime che giacciono sui fondali del Mediterraneo, mangiati
dai pesci e dal sale.
Se
il 2011 è
stato un anno orribile con una media di 5 decessi al giorno,
nei primi
sei mesi del 2013 si
è avuta notizia di 40
morti e
circa 7.800 persone arrivate sulle coste italiane sane e salve.
Secondo
In Migrazione, il 75% di chi scappa dalla Libia ha i requisiti per
chiedere l’asilo politico. Per questo, sostiene Simone Andreotti,
“evitare queste morti non è impossibile. Sarebbe sufficiente
permettere alle persone di ottenere un lasciapassare nelle ambasciate
e nei consolati europei nei Paesi di transito, per poter fare
richiesta d’asilo in Europa. Una scelta che metterebbe fine alla
sofferenza delle persone, che salverebbe tante vite e che spezzerebbe
gli interessi del traffico di esseri umani. Un modo per smarcarsi
definitivamente dai ricatti di Paesi che trasformano l’apertura o
la chiusura delle frontiere in un’arma di pressione
internazionale”.