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domenica 06 ottobre 2024
 
 

Dossier 0021, la trappola libica

22/07/2013  In celle di pochi metri, donne, uomini e bambini sono tenuti a pane e acqua, subendo violenze e abusi d'ogni genere. E' la storia quotidiana degli immigrati nel Paese nordafricano. Nell'indifferenza generale. Anche dell'Italia.

“Nella stessa stanza di quattro metri per quattro siamo in 17. Qui non c’è scelta, ci facciamo coraggio e cerchiamo di resistere”. Chi parla è un minorenne recluso a Benghazi, una delle strutture detentive libiche per potenziali “clandestini” in Europa. A quello di Abdusalam si aggiunge il grido di Jhon, carcere di Ganfuda: “Ti tirano il cibo in faccia, ti picchiano senza alcun motivo, ti prendono a schiaffi, ti minacciano con i fucili e le pistole, qualsiasi libico ora ha fucili o pistole, te le puntano alle tempie”.

L’ennesima denuncia sulle condizioni delle carceri in Libia arriva dal dossier “0021, trappola libica” della onlus In Migrazione. 0021 come il prefisso internazionale libico: le voci dei migranti fuggiti dal Corno d’Africa (Somalia, Eritrea e Etiopia) hanno attraversato le sponde del Mediterraneo grazie ai telefonini nascosti dai prigionieri.

In celle di pochi metri, donne, uomini e bambini sono tenuti a pane e acqua, dormendo per terra senza materassi. E ogni giorno sono sottoposti a umiliazioni e vessazioni da parte della polizia: bastonature, botte, stupri e torture. “La madre di un bambino di due anni continua a ripetermi che non sa cosa dare da mangiare al figlio, bisognoso anche di cure mediche”, racconta don Mussie Zerai, un sacerdote anche lui in contatto dall’Italia con i reclusi.

"Il censimento dei luoghi di detenzione è pressoché inesistente”, si legge nel dossier di In Migrazione, “così come il numero di migranti forzati che affollano questi non-luoghi. Ci hanno raccontato di almeno 500 persone ‘accolte’ nel campo della Mezzaluna rossa a Benghasi, altrettante rinchiuse a Kubz, 1.300 a Sabha nel deserto”.

Secondo Amnesty International, sono 5.000 i migranti forzati rinchiusi in 17 centri di trattenimento, che vanno ad aggiungersi ad altre 4-6.000 persone tra carceri comuni e campi gestiti da miliziani. La Croce Rossa invece ha visitato 60 strutture.

Uomini, donne e bambini intrappolati a metà del viaggio, tra il deserto e il mare, tra i Paesi di partenza e l’Europa. Addirittura, molti detenuti del Corno d’Africa sono richiedenti asilo politico e rifugiati già riconosciuti dall’Unhcr nei campi profughi del Sudan. Alla faccia della protezione internazionale, c’è chi è recluso da anni.

Da quando gli Stati europei, e l’Italia in prima fila, hanno stretto accordi con l’allora “amico” Ghedaffi per frenare l’immigrazione, i militari libici hanno arrestato molti africani con retate, casa per casa, nei quartieri popolari di Tripoli e di altre città. Altri sono stati imprigionati dopo essere stati respinti nel Mediterraneo da navi italiane.

Nessuno di loro è mai stato processato davanti a un giudice: l’unica colpa è di aver attraversato il deserto per provare a raggiungere la “Fortezza Europa”, tecnicamente sono potenziali “clandestini” nel nostro continente.

Da questo punto di vista, secondo il dossier di In Migrazione, c’è piena continuità tra la Nuova e la Vecchia Libia. Dopo il Trattato di amicizia del 2008, approvato dal Parlamento italiano con l’87% dei voti favorevoli, l’ultimo accordo tra Italia e Libia è stato ratificato lo scorso 4 luglio tra il premier Letta e il primo ministro Ali Zeidan Mohammed. Hanno rinnovato l’accordo del 2012 firmato dal Ministro Cancellieri (reso pubblico tre mesi dopo).

“Di fatto, l’Italia ha scelto di delegare alla Libia il controllo delle frontiere. Ma la Libia”, spiega Simone Andreotti, presidente di In Migrazione, “non contempla un sistema d’asilo, non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra sui diritti dell’Uomo. Dal 2010 persino l’Unhcr è impossibilitato al controllo del rispetto dei diritti umani. L’ostinazione dell’Occidente a non voler vedere, rende lecite le pratiche brutali che il Paese utilizza per il controllo dell’immigrazione e ci rende colpevolmente complici. Dunque si insiste su un approccio all’immigrazione che fu premessa dei famigerati respingimenti costati all’Italia una condanna da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo”.

Tra carceri e rastrellamenti nelle città libiche, attraversare il mare rappresenta spesso l’unica via per tentare la salvezza. La consapevolezza di quanto sia rischioso affidarsi ai trafficanti e salire sulle vecchie carrette del mare è altissima tra i migranti. Eppure, “questa non è una vita, non posso tornare”, spiega Teklemariam, “non c'è alcuna scelta, per forza devo rischiare. Per questo il viaggio non ti fa paura, nessuno ha paura di provare il mare, tutti hanno il desiderio di uscire dalla Libia; la cosa peggiore è vivere in Libia, perché vivere con i libici vuol dire vivere in un incubo”.

Ogni traversata ha un costo economico che si aggira tra i 900 e i 1200 euro. Il costo umano invece è molto più alto: prendere il mare può voler dire andare a ingrossare le fila delle quasi 20.000 vittime che giacciono sui fondali del Mediterraneo, mangiati dai pesci e dal sale.

Se il 2011 è stato un anno orribile con una media di 5 decessi al giorno, nei primi sei mesi del 2013 si è avuta notizia di 40 morti e circa 7.800 persone arrivate sulle coste italiane sane e salve.

Secondo In Migrazione, il 75% di chi scappa dalla Libia ha i requisiti per chiedere l’asilo politico. Per questo, sostiene Simone Andreotti, “evitare queste morti non è impossibile. Sarebbe sufficiente permettere alle persone di ottenere un lasciapassare nelle ambasciate e nei consolati europei nei Paesi di transito, per poter fare richiesta d’asilo in Europa. Una scelta che metterebbe fine alla sofferenza delle persone, che salverebbe tante vite e che spezzerebbe gli interessi del traffico di esseri umani. Un modo per smarcarsi definitivamente dai ricatti di Paesi che trasformano l’apertura o la chiusura delle frontiere in un’arma di pressione internazionale”.

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