Ultimo. L’Italia è il Paese che destina meno fondi per l’aiuto pubblico allo sviluppo fra tutti gli Stati occidentali. La notizia viene dall’Ocse, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che ha analizzato le performance dei 15 Paesi aderenti al Coordinamento aiuti allo sviluppo: il nostro Paese nel 2009 ha stanziato soltanto lo 0,15 per cento della ricchezza nazionale, contro lo 0,56 promesso per quest’anno. Nel 2008 era stato dello 0,22 per cento.
Siamo così a fondo scala. Anziché aumentare la quota, come avremmo dovuto fare per avvicinarci alla fatidica soglia dello 0,7 per cento alla quale tutti i Paesi donatori si sono impegnati ad arrivare entro il 2015, abbiamo invece tagliato i fondi alla cooperazione di un terzo rispetto all’anno precedente, esattamente del 31,1 per cento (peggio di noi, in quanto a tagli, ha fatto solo l’Austria, riducendo lo stanziamento del 31,2).
Le mancate promesse italiane danneggeranno l’impegno per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio, indeboliranno cioé il programma di riduzione della povertà nei Paesi in via di sviluppo che gli Stati membri dell'Onu si erano dati scegliendo il 2015 come data limite entro la quale ottenere risultati significativi.
Il rapporto dell’Ocse, peraltro, non punta il dito soltanto sul taglio di risorse da parte del Governo italiano. Sotto accusa è l’intero sistema dell’aiuto pubblico del nostro Paese. Il Coordinamento aiuti allo sviluppo, infatti, ha ribadito tutte le 16 raccomandazioni formulate all’Italia ancora nel 2004 (segno che in questi sei anni nessun problema è stato affrontato e risolto), e ne ha aggiunto altre 19: solo attuando tutti i 35 impegni – sottolinea il Rapporto – l’Italia potrà riportare la cooperazione allo sviluppo in linea con le migliori prassi dei Paesi Ocse.
In cifre assolute, l’Italia è passata dai 4.861 miliardi di dollari stanziati nel 2008 per i Paesi poveri, ai 3.314 del 2009. E non possiamo nemmeno far ricorso al “mal comune mezzo gaudio”: cinque Paesi hanno addirittura superato già ora la soglia dello 0,7 per cento del Pil (Danimarca, Lussemburgo, Olanda, Norvegia e Svezia). Inoltre diversi Paesi hanno aumentato sensibilmente gli stanziamenti rispetto all’anno passato: la stessa Norvegia, e poi Francia, Regno Unito, Corea, Finlandia, Belgio e Svizzera.
Se l’Italia “brilla” per la sua maglia nera in fatto di aiuto allo sviluppo, non si può dire che gli altri Paesi donatori dimostrino un impegno adeguato nella lotta alla povertà. Secondo i dati diffusi dall’Ocse, infatti, la crescita dei fondi destinati alle Nazioni povere (in termini assoiluti: 123 miliardi di dollari nel 2009, rispetto ai 122 dell’anno precedente) è purtroppo solo apparente. Tenendo conto dell’inflazione, infatti, e dunque ragionando in termini di reale potere d’acquisto, c’è un calo di 3,5 miliardi di dollari. In media, i Paesi industrializzati donano lo 0,31 per cento del loro Prodotto interno lordo. Molto più dell’Italia, ma molto meno di quanto si erano impegnati a fare, cioè raggiungere lo 0,56 per cento entro il 2010.
In questo quadro grigio, ci sono però le note positive. Oltre ai cinque Paesi europei che già adesso superano la soglia dello 0,7 per cento del Pil prevista per il 2010 (Danimarca, Lussemburgo, Olanda, Norvegia e Svezia), va sottolineata anche l’inversione di tendenza degli Stati Uniti d'America, che è passato dalla percentuale dello 0,19 a quella dello 0,20. Sembra poco, ma il colosso-Usa è di gran lunga il primo Paese del mondo quanto a stanziamenti in termini assoluti: nel 2009 ha donato 28,7 miliardi di dollari. Quanto agli altri donatori di rilievo, ci sono: Giappone (16,5 miliardi di dollari), Francia (15,3 miliardi), Unione Europea (15), Germania (13,3), Regno Unito (11,7).
Sono anche aumentati sensibilmente – altra nota positiva – gli aiuti pubblici ai Paesi più impoveriti: parliamo dell’Africa subsahariana, che registra un incremento del 10,5 per cento di fondi ricevuti (7,5 miliardi di dollari), dell’Afghanistan (+39,5%, 3 miliardi), del gruppo dei Paesi meno sviluppati (+13,6%, 8,1 miliardi).
Le Organizzazioni non governative (Ong) italiane gridano allo scandalo. Di fronte alla nuova impietosa analisi dell’Ocse sullo scarsissimo contributo italiano per la cooperazione allo sviluppo, si moltiplicano gli appelli del mondo del volontariato internazionale per chiedere al Governo un'autentica inversione di rotta, dopo quasi vent’anni di trascuratezza da parte degli esecutivi che si sono succeduti a Palazzo Chigi.
Dura, ad esempio, la posizione presa da Link 2007, un consorzio di Ong che raggruppa dieci fra le maggiori realtà italiane del volontariato internazionale. In un documento inviato in questi giorni ai parlamentari, Link 2007 analizza i “mali” che affliggono la nostra cooperazione. “Nella politica e nell’azione di governo", rileva il documento, "sembra esserci ormai una costante apatia, con qualche picco di interesse quando il tema è funzionale alla visibilità internazionale o al particolare momento politico, ma con una generale indifferenza rispetto allo stato di salute della struttura operativa, alle necessità per poterne assicurare l’efficienza, al grado di efficacia e valenza politica delle azioni di cooperazione. La stessa amministrazione degli Esteri sembra non coglierne più l’importanza e l’interesse per il nostro Paese”.
Link 2007 denuncia non solo l’”endemica mancanza di fondi”, ma anche la mancata riforma della legge sulla cooperazione e la debolezza strutturale dello strumento-principe del nostro aiuto allo sviluppo: la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo che – come scrivono le Ong – è ormai “abbandonata a se stessa” e ridotta a operare con meno della metà degli esperti e del personale previsto dalla legge. Non solo. Viene anche criticata la “confusione istituzionale” e la mancanza di coordinamento: all’azione del ministero degli Esteri si affianca e talvolta si sovrappone la cooperazione decentrata degli Enti locali, mentre “la Protezione Civile si è vista subappaltare de facto la risposta alle emergenze internazionali”. Il risultato? Lo sintetizza il presidente del consorzio, Arturo Alberti: “È seriamente a rischio la stessa credibilità del nostro Paese” di fronte ai partner internazionali.
Anche la Gcap, la Coalizione italiana contro la povertà sostenuta da oltre 10 milioni di cittadini italiani e da 70 realtà della società civile, chiede risposte urgenti alla crisi della cooperazione: ha lanciato una raccolta di firme, che si svolgerà attraverso l’invio di cartoline elettroniche, indirizzata al Presidente del Consiglio Berlusconi e a quello di turno del Consiglio Europeo Josè Luis Rodriguez Zapatero, perché l’Italia e l’Europa rispettino gli impegni presi in vista degli Obiettivi del Millennio per la riduzione della povertà.
La proposta è stata avanzata da tempo dalle realtà di cooperazione internazionale e dalla società civile. Ma ora l’ha rilanciata una dozzina di Ong internazionali ed è stata fatta propria da Franziska Keller, eurodeputata tedesca dei Verdi: si tratta della cosiddetta “Robin Tax”, ossia di una forma di tassazione sulle transazioni finanziarie. Un prelievo di minima entità (lo 0,05 per cento), che tuttavia sul grande volume delle operazioni finanziarie internazionali consentirebbe di creare un fondo di alcuni miliardi di euro all’anno da destinare alla cooperazione internazionale allo sviluppo.
Una tassa del genere – dicono la Keller e le Ong – farebbe anche bene al mercato finanziario, disincentivando le forme di speculazione che, come si è visto nei due anni passati, hanno avuto una parte tanto rilevante nell’aggravare l’emergenza-cibo del 2008 e la crisi economica del 2009.
Un forte appello viene anche dalle Ong internazionali Oxfam e Ucodep: chiedono ai Paesi ricchi di stabilire piani di incremento annuali dell’aiuto pubblico allo sviluppo in vista dell’appuntamento del prossimo settembre a New York, quando si svolgerà il prossimo vertice delle Nazioni Unite per fare il punto sugli Obiettivi del Millennio.
“Quando sono investiti bene”, dice il portavoce italiano di Oxfam, Gabriele Carchella, “gli aiuti salvano milioni di vite”. Un esempio? Il Nepal. Grazie agli aiuti, dal 2006 il tasso di mortalità infantile si è ridotto del 22 per cento, la mortalità neonatale del 38 per cento e quella materna del 19 per cento. “Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Lancet”, aggiunge, “mostra che nel periodo dal 1980 al 2008 la mortalità materna è diminuita a livello mondiale, passando da oltre un milione di casi l’anno a meno di 350 mila. Un risultato raggiunto soprattutto grazie all’efficace impiego degli aiuti. Di fronte a simili risultati, la loro riduzione non può che essere definita una misura miope e irresponsabile”.
Nel 2008 il Governo italiano ha speso 1.030 milioni di euro per le missioni militari e 826 milioni per la cooperazione allo sviluppo delle organizzazioni non governative e dell’ambito umanitario. Nel 2009, la spesa per le missioni è salita a 1.400 milioni di euro, mentre quella per la cooperazione è scesa a 411 milioni. Insomma, di fronte alle emergenze l’Italia si presenta sempre di più con la divisa.
Il dato emerge da un’analisi di Nino Sergi, presidente dell’Ong italiana Intersos. “L’immagine che l’Italia sta proiettando all’estero”, scrive Nino Sergi, “evidenzia una netta preferenza per l’impegno militare rispetto alla cooperazione civile.
Naturalmente, il presidente di Intersos si riferisce solo alle divise impiegate in emergenze internazionali. Se si dovessero raffrontare semplicemente i bilanci della difesa e della cooperazione risulterebbe che “le nostre spese militari”, dice Farida Bena di Oxfam-Ucodep, “sono circa dieci volte maggiori rispetto all’aiuto pubblico allo sviluppo italiano”.
Tornando allo studio di Sergi, intitolato “Trend missioni militari e cooperazione allo sviluppo”, il responsabile di Intersos fa anche l’esempio specifico dell’Afghanistan: mentre i fondi per l’umanitario si sono aggirati intorno ai 50 milioni di euro, quelli per la missione militare sono costantemente lievitati, passando da poco più di 300 milioni del 2006 a oltre 450 milioni del 2009. Una situazione non molto diversa da quella della nostra presenza in Irak.
“La crescente e disorganica presenza militare anche in attività umanitarie e di cooperazione civile”, conclude Nino Sergi, “sta ‘inquinando’ lo spazio umanitario, quello da sempre basato sui principi di umanità, imparzialità, neutralità, indipendenza, non discriminazione che, per essere riconosciuto come tale dalla popolazione e quindi rispettato e tutelato, deve rimanere chiaramente riconoscibile, senza contaminazioni e strumentalizzazioni di alcun tipo”.