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domenica 18 maggio 2025
 
 

Dossier luna, lo stop di Obama

15/04/2010  Il presidente degli Stati Uniti dà l'addio ai sogni spaziali, almeno nell'immediato.

Yes we can, sì possiamo, ma non tutto. Tornare sulla Luna, ad esempio. Barack Obama dà l'addio ai sogni spaziali degli Stati Uniti e alla prospettiva di far tornare in breve tempo l'uomo sulla Luna, magari per colonizzarla e poi usarla come base di lancio per missioni verso  pianeti più lontani, come Marte. Nell'ultimo  bilancio presentato dalla Casa Bianca i fondi per le  missioni nello spazio non ci sono più. Per Obama l'esplorazione dei pianeti e delle stelle non sembra essere una priorità.

Era stato il suo predecessore, George W. Bush, a lanciare un progetto per riportare  gli astronauti americani sulla Luna. L'idea era nata  nel 2003 dopo la tragica esplosione del Columbia, la navetta spaziale disintegrata al momento del ritorno nell'atmosfera terrestre. Dopo i giorni del lutto per la morte dei sette astronauti a bordo della navetta, Bush e la Nasa, l'ente spaziale americano, avviarono il  “Programma Constellation”per riportare l'uomo sulla Luna entro il 2020. Ma ora il programma  viene accantonato e finisce nel cassetto. Per i prossimi anni dalla base di lancio di Cape Canaveral non si prevedono nuove partenze di razzi e missili.

Alla Nasa l'hanno presa male. Anche perché il progetto Constellation aveva già assorbito ben 9 miliardi di dollari e chiuderlo ne costerà altri 5. Obama preferisce restare con i piedi per terra. La Nasa avrà comunque finanziamenti (19 miliardi di dollari nel budget 2011), ma i soldi dovranno essere spesi soprattutto per programmi di ricerca e di innovazione tecnologica. La Nasa, inoltre, dovrebbe fissare degli standard generali per chi vuole avviare progetti di esplorazione spaziale. Questi progetti, infatti, si apriranno sempre di più ai privati in vista dello sfruttamento commerciale dello spazio.

Non si esclude che in futuro possano esserci dei “taxi” con i quali gli astronauti potranno raggiungere la Stazione spaziale internazionale. Perciò, anche se l'uomo non tornerà presto sulla Luna, assisteremo a un aumento del traffico spaziale.

                                                                                                     Roberto Zichittella                         

L'esplorazione dello spazio da parte degli Stati Uniti è un'attività figlia della Guerra Fredda. I programmi spaziali furono infatti stimolati e accelerati dalla competizione con l'Unione Sovietica, allora grande rivale degli Usa sullo scacchiere mondiale. Quando il 4 ottobre 1957 l'Urss lanciò nello spazio il satellite artificiale Sputnik 1 per gli americani fu uno smacco. Pensavano di arrivare prima loro, ma furono battuti. E il 3 novembre di quello stesso anno i sovietici mandarono in orbita un altro Sputnik. Questa volta c'era a bordo la cagnetta Laika, primo essere vivente nello spazio.

Gli Stati Uniti non restarono a guardare. Il 29 luglio 1958 fu fondata la Nasa, l'agenzia governativa civile incaricata di gestire l'esplorazione dello spazio. Il primo programma della Nasa si chiamò Mercury. Il primo americano a volare nello spazio fu l'astronauta Alan Shepard. Il primo, invece, a compiere un' intera orbita intorno alla Terra fu John Glenn, il 20 febbraio 1962. Confortati da questi riusultati, gli americani si lanciarono in un programma più ambizioso: portare l'uomo  sulla Luna e poi farlo ritornare sulla Terra sano e salvo. Il programma fu fortemente voluto e finanziato dal presidente John Kennedy.

Erano gli anni di “nuove frontiere” e anche lo spazio diventava una frontiera capace di ispirare i sogni del popolo americano. Furono così lanciati i programmi Apollo e Gemini. Il programma partì male con un incidente che uccise i tre astronauti della missione Apollo 1. Ma dopo questo passo falso le missioni successive portarono al grande evento del 20 luglio 1969: lo sbarco di una navicella sulla Luna e il piede di un uomo, Neil Armstrong, sul suolo lunare.

E' curioso notare che fra i documenti ufficiali della Casa Bianca è conservato il discorso che avrebbe dovuto rivolgere alla nazione il presidente Nixon in caso di catastrofe. Il testo, datato 18 luglio 1969, redatto dal ghost writer William Safire, comincia così: “Il destino ha voluto che gli uomini mandati sulla Luna per esplorare in pace debbano restare sulla Luna per riposare in pace”. Per fortuna il discorso rimase nel cassetto e dopo Armstrong altri dieci astronauti misero piede sul nostro satellite. Il programma Apollo fu abbandonato nel 1972, poi ci furono le missioni dello Shuttle, turbate da due incidenti nel 1986 e nel 2003.
                                                                                    
                                                                                      Roberto Zichittella

Dopo la recente scoperta di ghiaccio nelle regioni polari, la Luna è tornata in primo piano. Ma se gli scienziati dovessero fate la hit-parade dei corpi celesti che vorrebbero visitare, al primo posto ci sarebbe Marte. Il perché è presto detto: il pianeta che oggi appare deserto, freddo e inospitale, con un’atmosfera rarefatta e irrespirabile, un tempo era ricco di fiumi e di laghi. Con l’atmosfera più densa e temperature miti, capace di ospitare la vita. Anzi, secondo alcuni forme primordiali di vita si sarebbero davvero sviluppate e avrebbero lasciato traccia in un meteorite di origine marziana scoperto nel 1984 in  Antartide e classificato dalla Nasa come ALH84001.

Quello che sappiamo oggi su Marte lo dobbiamo soprattutto alle sonde inviate in orbita attorno al pianeta o che sono scese sulla sua superficie. Missioni dal costo relativamente contenuto, ma dai risultati scientifici straordinari. I robot, però, non possono sostituirsi all’uomo e l’esplorazione umana del pianeta rimane “l’obiettivo più importante”, come spiega Simonetta Di Pippo, astrofisica e responsabile voli umani dell’Agenzia Spaziale Europea. Inviare astronauti su Marte, tuttavia, è estremamente complesso. Qualche numero: la Luna dista da noi 380 mila chilometri, che le capsule Apollo percorrevano in tre giorni. Marte è lontano dalla Terra dai 56 ai 100 milioni di chilometri. Un viaggio, con la tecnologia attuale, richiederebbe otto mesi per andare e altrettanti per tornare indietro. Per simulare una missione sul pianeta, sei volontari, quattro russi e due europei (uno è italiano) stanno per essere rinchiusi in un simulacro di astronave in un laboratorio vicino a Mosca. Vi resteranno 520 giorni. Le comunicazioni saranno “differite” sino a un massimo di 20 minuti per riprodurre il tempo necessario ai segnali radio per viaggiare nello spazio.

Un test durissimo per i nervi delle cavie umane, ma andare su Marte è ancora un’altra cosa. Basti pensare al problema dei viveri e delle scorte d’ossigeno. E agli effetti sul corpo umano di una lunga permanenza nello spazio, con tutti i rischi legati non solo l’isolamento, ma anche all’assenza di peso, alle radiazioni, alla lontananza. Sulla stazione internazionale gli equipaggi trascorrono periodi di tre – sei mesi in orbita e questo permette, fra l’altro, di studiare l’adattamento del corpo all’ambiente. Il record di permanenza nello spazio è del cosmonauta russo Valery Polyakov: 438 giorni sulla Mir. Ciò che preoccupa non sono gli effetti permanenti di una missione di anno e mezzo, ma le condizioni psicofisiche nelle quali gli astronauti, dopo otto mesi di viaggio, si troverebbero ad affrontare la fase più delicata: la discesa su Marte e la sua esplorazione.

Per questo la Nasa sta puntando su nuovi sistemi di propulsione. Negli anni ’60 si era pensato di utilizzare l’energia nucleare per far espandere ad altissima temperatura dell’idrogeno liquido e sfruttarne la spinta propulsiva. Oggi si guarda con particolare interesse al motore a ioni. I comuni razzi che impiegano propellenti chimici forniscono una spinta considerevole, ma per pochi minuti, durante i quali bruciano enormi quantità di carburante. Nel motore a ioni, già sperimentato sulla sonda lunare europea Smart-1, un gas viene accelerato da un campo elettromagnetico. La spinta è modesta, però il motore può funzionare per lunghi periodi, accelerando la navicella spaziale a velocità molto più elevate rispetto ai razzi tradizionali.

Utilizzando la propulsione a ioni, il viaggio verso Marte potrebbe durare meno di 40 giorni, a patto, però, di disporre di una fonte d’energia capace di produrre 200 megawatt. Troppo per i pannelli solari. La soluzione potrebbe essere un reattore nucleare sufficientemente leggero da poter essere lanciato nello spazio. Che, però, ancora non esiste. Realizzarlo sarà come avere il biglietto per il Pianeta Rosso.                                                                                                                                                
                                                                                                       Giancarlo Riolfo

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