Sono ormai preistoria gli anni
cinquanta quando il videogioco iniziava a muovere i primi passi negli
ambienti di ricerca scientifica e nelle facoltà universitarie americane,
per poi svilupparsi a partire dalla seconda metà degli anni settanta.
Se pensiamo al "Game Boy" e a "Tetris", incluso nel prezzo, semplice ma
irresistibile - era il 1989 e il colosso giapponese Nintendo proponeva
così la sua versione dell'idea di libertà - di strada ne è stata fatta.
Il Game Boy era una console portatile di plastica a forma di piccola
lavagnetta che funzionava con le pile e prometteva di liberare gli
appassionati di videogiochi dalla tirannia delle sale giochi. Ne furono
venduti più di settanta milioni: il gioco era abbastanza semplice da non
creare confusione, l'azione era ripetitiva e senza trama. E soprattutto
rispecchiava a modo suo quella società segnata profondamente dalla
caduta del Muro di Berlino (Tetris consisteva in tanti piccoli
mattoncini che cadevano dall'alto).
Oggi
il videogioco ha raggiunto un livello di maturità con implicazioni
sociologiche, economiche, antropologiche, esistenziali, ma anche, e
soprattutto, pedagogiche. Non c'è bambino che non ne usi almeno uno,
anzi l'età media dei videogiocatori si è alzata con l'avvento degli smartphone.
L'industria videoludica ha un fatturato complessivo superiore a quella
cinematografica, contaminata a sua volta: cinema - pensiamo alla
trilogia di Matrix o alla ormai mitica Lara Croft, personaggio immaginario protagonista della serie di videogiochi Tomb Raider
da cui sono derivati film e fumetti - ma anche televisione, letteratura
e pubblicità non possono più prescindere dalla sua presenza, via via
intensificata dalla diffusione di Internet negli anni novanta, che ha
permesso lo sviluppo di un'intelligenza connettiva capace di trovare una
sua piena collocazione nel mondo scolastico in funzione pedagogica (un
esempio ne è Stopdisasters lanciato
online dalle Nazioni Unite per insegnare ai più piccoli a costruire
città e villaggi a prova di calamità naturali).
Con l'avvento delle tecnologie digitali che si basano
sull'interattività, la multimedialità, la plurisensorialità, i
videogiochi consentono un apprendimento sempre più divertente, oltre che
utile, e stimolano nuove prospettive di insegnamento. Un esempio è Impara con i Pokèmon – avventura tra i tasti,
il nuovissimo titolo Nintendo per console portatile Ds e 3Ds dedicato
ai bambini da 6 a 12 anni: una nuova avventura in chiave
ludico-educativa nel mondo di Pikachu & friends per migliorare la
capacità di digitazione su una tastiera attraverso sessanta livelli
crescenti di difficoltà man mano che si sviluppano le abilità
dattilografiche. Al giocatore, nuovo membro del Circolo dei dattilografi virtuale,
viene chiesto all'inizio di digitare solo l'iniziale del nome del
Pokèmon incontrato, per poi passare a esercizi più impegnativi.
Il massmediologo canadese Marshall McLuhan scriveva che «coloro che
fanno distinzione tra intrattenimento e educazione forse non sanno che
l'educazione deve essere divertente e il divertimento deve essere
educativo». Per esprimere il concetto è stato coniato il termine endutainment (fusione delle parole educational e entertainment).
In sostanza, quello che ci auspichiamo diventi la funzione esclusiva
del videogioco del futuro: educare divertendosi, sviluppare delle
abilità.
Se da una parte i videogiochi si propongono sempre di più finalità didattiche e formative, dall'altro sono ancora percepiti come dei riempitivi tra un'attività e l'altra. Con i giochi tradizionali, come Monopoli e Risiko, quando uno si sedeva per giocare, era perché voleva sedersi e mettersi a giocare. Oggi si gioca in modo ambivalente, casuale, compulsivo. I videogiochi rappresentano uno spazio vuoto nella nostra giornata più che una vera e propria attività. E arrivano a tutti: nel 2007 con l'invenzione dell'iPhone sviluppare giochi e distribuirli, attraverso l'App store, è diventato ancora più facile. Ne parliamo con
Massimiliano Andreoletti, docente di Didattica del gioco e e dell'animazione dell'Università Cattolica di Milano.
- Professore, quali sono oggi le abilità che un videogioco deve sviluppare nei bambini?
«Il gioco è da sempre una piccola grande scuola di vita. Se parliamo di videogioco la motivazione che mi spinge a giocare è intrinseca al gioco stesso: conquistare punteggi sempre più alti per migliorare la mia posizione in classifica. Per riuscirci devo diventare abile con quell'interfaccia, imparare le regole del gioco e applicarle per raggiungere il mio scopo. Dovrò essere molto preciso e rapido nella digitazione perché questo farà la differenza: alla fine dovrò riuscire a utilizzare la tastiera con tutte le dita senza doverla necessariamente guardare. Dal canto suo il gioco deve essere fondamentalmente semplice perché solo così motiva il giocatore, aumentando progressivamente il livello di complessità, a digitare su un'interfaccia delle lettere con una certa abilità, per poi passare al livello successivo. Oggi si preparano i cittadini del 2030 e quindi l'insegnamento scolastico e il gioco, che oggi ne fa sempre di più parte, devono proiettarsi sul lungo periodo: sarebbe impossibile prescindere dalla tecnologia, che una volta entrata nell'uso comune non si può più eliminare, al massimo si perfeziona».
- I giochi sono sempre più tecnologici. Stiamo perdendo il senso del gioco inteso in senso tradizionale o è un valore aggiunto?
«E' una naturale evoluzione del gioco tradizionale. Il gioco è la rappresentazione perfetta della società che lo crea. Ogni epoca storica e cultura hanno creato giochi, modalità del gioco, interfacce, metafore: gli scacchi erano un'interfaccia, una metafora della società. Tanti giochi scompaiono perché educando a una società e a una cultura precise, mutando queste, non trovano più ragion d'essere: penso al Monopoli degli anni '30 basato sul capitalismo o, a ritroso, al gioco della palla presso i Maya dove la sfera simboleggiava la perfezione, il dio, e chi perdeva veniva sacrificato. La società attuale vuole mettere tutti alla pari. Il cosiddetto sogno americano è questo: chiunque ce la può fare. Ci sono persone malate di Sla che senza interfaccia non comunicherebbero più con nessuno perché al massimo riescono a muovere il dito mignolo».
- Come sono cambiati i videogiochi dal mitico "Game Boy" a oggi?
«La tecnologia ha agevolato il produttore del videogioco a realizzare qualcosa di sempre più reale. Il classico Pong sviluppato da Higinbotham era una simulazione semplicistica del tennis: io dovevo pensare che il rettangolo era il giocatore e il quadrato la pallina. Oggi non solo il giocatore è in carne e ossa ma se gioco contro il campione svizzero riesco anche a vedere se ha la barba incolta. Ho una potenzialità narrativa in più. Nel cinema l'illusione in movimento è data da almeno 24 fotogrammi al secondo: quanto è reale qualcosa che ne fa passare 150 al secondo? Smartphone e i-pad stanno erodendo molto le quote di mercato di interfacce come Nintendo. L'ultima evoluzione è la naturalità: basta pensare a tutti quei giochi che usano sistemi di riconoscimento del movimento che rilevano il corpo».
- Se i videogiochi tendono sempre di più alla realtà perché non ritornare ai giochi reali?
«Questo varrebbe solo per alcuni giochi. Pensiamo al calcio: tutti
vorremmo essere dei campioni, ma non tutti ne abbiamo l'abilità. Per
qualche secondo il videogioco mi procura l'illusione, o meglio il
piacere di esserlo. Ci sono anche giochi che nella realtà non sono
producibili ma stuzzicano ugualmente l'utente».
- Il New York
Times li ha definiti "giochi stupidi".
«Nella
Passione di Gesù c'è una componente-caso enorme: i soldati romani si
giocano a dadi il suo mantello. Che senso ha giocarsi il simbolo del
potere del figlio di Dio a dadi? Nello sport, pensiamo al gioco del
calcio: che senso ha correre dietro a una sfera? Non parlerei di
stupidità nel gioco in generale».
- Cosa può creare una
dipendenza?
«La monomedialità. Se l'essere genitore si riduce a
riempire il tempo dei bambini per far sì che non diano noia agli
adulti, quel genitore non è un buon educatore. Oggi ci sono bambini che
hanno l'agenda di un manager, non hanno spazi dove sporcarsi le mani,
sudare. La console del videogioco, come potrebbe essere la televisione,
risolve il problema: è asettica, non crea polvere, non sporca, si spegne
in un attimo. E i bambini stanno buoni. Non la metterei in un'ottica di
limiti ma di opportunità: il genitore deve fornire al proprio figlio
tante occasione per potersi esprimere. Il videogioco ha una potenzialità
che diventa un limite: aumentando gradualmente la complessità del
gioco, riesce a soddisfare sempre di più il cervello».
- Forse
bisognerebbe diffondere una cultura diversa del gioco, riappropriarsi
del suo significato originario.
«Oggi si pensa al gioco più come
un riempitivo che come attività formativa. Il gioco invece è
un'attività di estrema importanza: insegna la vita. Nei popoli antichi
era connesso ai riti religiosi: Cristo spiegava come ci si doveva
approcciare a lui: “venite a me come bambini”, e i bambini la prima
cosa che fanno è giocare. Nel gioco bisogna lasciare libertà di azione e
di fine, anche se poi questo si identifica con il piacere: si fa un
gioco perché sostanzialmente piace e quindi rende felici. Si dice che
iniziamo a giocare già nel ventre materno. Nel gioco c'è la cultura,
l'imparare a diventare grandi. In ogni età ci sono modalità diverse di
rapportarvisi, ma è giocando che si impara a diventare un buon cittadino
domani».
Francesca Fiocchi
Oggi i bambini hanno smesso di giocare all'aperto, nel verde, un valore e un'abitudine che andrebbero recuperati, in fretta. Ritornare nei boschi, insegnare ad amarli e rispettarli è un'esperienza unica: i suoni, gli odori, i colori sono irripetibili. E i figli crescono più sani e intelligenti. E con maggiori capacità di autocontrollo e autogestione.
Social network, videogiochi di ultima generazione, televisione rischiano di compromettere seriamente la salute di bambini e adolescenti, ancorati interi pomeriggi a uno schermo luminoso, senza nessun controllo da parte di genitori spesso troppo presi da mille altre cose fuorché dai figli. Il segreto non sta nel vietare – anche perché sarebbe controproducente perdere il contatto con una realtà sempre più preponderante nel loro futuro – ma nel saper dosare: le ore davanti alla televisione o ai cosiddetti videogames non dovrebbero essere più di 1-2 al giorno.
Si chiama Nature deficit disorder e altro non è, secondo lo scrittore americano Richard Louve, che un rapporto mancato tra uomo e ambiente circostante, che inevitabilmente si riflette sul comportamento, sul quoziente intellettivo e sulle abitudini alimentari: la cura della mancata capacità di concentrazione, della svogliatezza, degli stati ansiosi e depressivi, della noia e dell'obesità passa anche attraverso un corretto rapporto con la natura, la stimolazione del gioco libero e dell'immaginazione creativa.
Un milione di bambini italiani fra i 6 e gli 11 anni, in media 6 per ogni classe elementare, ha problemi di peso e, secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, rischia di vivere meno dei genitori. Una delle concause è proprio la sedentarietà causata da una dipendenza fuori controllo da televisione, internet e videogiochi: un bambino dovrebbe essere attivo almeno un'ora al giorno, non necessariamente facendo sport: basterebbe anche una semplice passeggiata o giocare nel cortile di casa per migliorare capacità motorie, di coordinazione, di equilibrio e di agilità.
Studi scientifici hanno dimostrato che i bambini con una regolare attività di gioco all'aperto hanno maggiori capacità di osservazione e ragionamento, soffrono di minori disagi comportamentali, hanno più difese immunitarie. E, di conseguenza, sono più felici.