Roberto Saviano studiava il fenomeno del narcotraffico ancor prima che venisse pubblicato Gomorra. Quindi è da un decennio che indaga, consulta documenti, prende appunti. Questo lungo lavoro è stato riversato nel suo nuovo libro, Zero zero zero, edito da Feltrinelli, accolto da un grande successo. Probabilmente non esistono saggi altrettanto completi, articolati e ricchi di storie - secondo la tendenza dello scrittore a mescolare racconto e analisi - sulla cocaina. Ed è giusto riconoscere allo scrittore napoletano di aver affrontato con coraggio e determinazione una sfida difficile, dopo la clamorosa affermazione di Gomorra. Si respira una grande passione, nelle sue pagine, sulle cui ragioni profonde troverete interessanti riflessioni nell'intervista seguente.
Leggendo Zero zero zero, il lettore apprende la forza spaventosa e illimitata dei narcotrafficanti, dominatori - nei fatti e cifre alla mano - dell'economia mondiale. Si capisce come un problema che, in apparenza, non ci tocca da vicino, in realtà determina più di quanto immaginiamo il nostro destino. Come pure quello degli Stati e delle istituzioni.
Solo alla fine di un lungo percorso, nelle ultime pagine del saggio, dopo aver elaborato la più esauriente fenomenologia del traffico di cocaina che si conosca, Saviano si domanda quali siano le strategie più efficaci per contrastarlo. La sua risposta è: la legalizzazione.
Va detto subito che lo scrittore non giunge "a cuor leggero" a questa conclusione ed è del tutto consapevole delle implicazioni della sua indicazione. Lui stesso la definisce «un'opzione schifosa» sul piano morale. È dunque con sofferenza che giunge a questa conclusione.
Dal suo punto di vista, tuttavia, non esistono alternative. L'unico modo di combattere un potere tanto mostruoso e insidioso, per lo scrittore, è quello di ripetere quanto si è fatto con il tabacco: se ne legalizza il consumo, lo si pone sotto controllo e, con i ricavati, si attiva una intensa campagna di informazione. Altro modo di scardinare le trame dei narcotrafficanti, a suo avviso, non è dato.
L'opinione di don Mazzi, e di altri operatori delle Comunità di recupero, è diversa: secondo loro, solo battendo la strada dell'educazione, della formazione della persona e della prevenzione si riuscirà a debellare la strage perpetrata dalla cocaina. Certo, si tratta di un via lunga, che richiede pazienza, fiducia nell'essere umano, investimenti culturali e materiali. Ma questa è l'unica via: a questa, davvero, non c'è alternativa. La legalizzazione, al contrario, è un'illusione, un azzardo che può avere effetti devastanti.
Paolo Perazzolo
Basta una battuta per entrare in
argomento con Roberto Saviano.
«Preferisci dell’acqua o una
Coca?», chiede. «Una Coca», rispondo.
E aggiungo: «Di quello dobbiamo
parlare, no?». Il suo nuovo libro
pubblicato da Feltrinelli, che da due mesi
domina le classifiche italiane, si intitola
Zero zero zero ed è una documentatissima,
quasi maniacale inchiesta sul
traffico mondiale di cocaina.
Si concede
uno dei suoi rari sorrisi e attacca, immergendosi
in quel pozzo senza fondo – l’immagine
è sua – in cui è precipitato mentre
conduceva indagini e scriveva...
Ci incontriamo in una libreria di Roma.
Lo annunciano gli uomini della scorta,
dai quali – sono passati sette anni
dall’uscita del libro-rivelazione, Gomorra,
e dalla condanna pubblica del clan dei
Casalesi a Casal di Principe che gli hanno
attirato una condanna a morte – non si separa
mai, né di giorno né di notte.
Arriva con un berretto, per schermirsi
dallo sguardo dei curiosi, e s’infila in un
ufficio appartato, sotto lo sguardo vigile
di un agente. «Sono sempre stato ossessionato
dalla capacità di guadagno dei
trafficanti», comincia. «Cercavo una metafora
letteraria per darne le dimensioni,
finché mi sono imbattuto in questi numeri:
se investo 1.000 euro nella Apple, una
delle aziende più innovative del pianeta,
dopo un anno mi ritrovo in mano 1.600
euro; se investo la stessa somma in cocaina,
dopo 12 mesi metto in tasca 182 mila
euro... A quel punto sono caduto in un
pozzo. Intuivo che, se non avessi studiato
a fondo il narcotraffico, non avrei compreso
nulla del mondo. Un’esagerazione,
lo so, ma per me è così. Qualche settimana
fa a Gioia Tauro hanno sequestrato
190 chili di coca: avrebbero fruttato 40
milioni di euro, che si sarebbero trasformati
in catene di supermercati, costruiti a prezzi imbattibili, con l’effetto di alterare la
concorrenza e far saltare il gioco. Ecco perché,
quando guardi in faccia il fenomeno della
cocaina, senti di essere dentro una storia
che ti permette di capire il mondo».
Zero zero zero è un appassionato tentativo di
smascherare i meccanismi del narcotraffico.
Mostratene con efficacia le mostruose fattezze
e la forza opprimente, Saviano suggerisce la legalizzazione,
anche se riconosce che «sul piano
morale, è un’opzione schifosa. Ma qualcuno
mi spieghi come si può combattere questo
dramma... D’altra parte, non mi sembra che i
politici abbiano voglia di affrontare la questione.
Fra i famosi 10 punti fondamentali del nuovo
Governo, non compare la parola mafia. Eppure
sono proprio i dati governativi a dichiarare
che l’economia più importante del nostro
Paese è quella criminale. “La mafia ha vinto,
ancora una volta”, ho pensato nell’istante
in cui quella clamorosa “svista” mi ha colpito
come uno schiaffo».
Si appassiona dentro la sua giacca scura, che
per lui dev’essere come una divisa, e accompagna
le parole con ampi gesti delle mani, a rimarcarne
la gravità. E s’accalora ancora di più
quando gli faccio notare che il suo libro, in realtà,
non indica la legalizzazione come unica strategia
di contrasto alla cocaina, ma ne suggerisce
un’altra: la conoscenza, perché conoscere è
già cambiare. «La conoscenza è il primo strumento
non solo per disarticolare il narco traffico, ma anche per permettere a un Paese
di essere cosciente dei flussi che determinano
il suo destino. Mi spiego: se un ragazzo
italiano si accorge che, mentre le aziende non
producono più e i consumi ristagnano, continuano
a sorgere centri commerciali, condomini,
negozi, comincia a rendersi conto che dietro
c’è l’azione dei gruppi criminali che riciclano
denaro, strappano appalti, drogano il mercato.
Se lo sai, sei in grado di capire il tuo destino,
sei vaccinato. Se lo sai, ne parlerai, costruirai
indignazione, educherai tuo figlio...».
Saviano introduce un altro motivo di speranza:
«Papa Francesco, per la prima volta, ha
citato il dramma del narcotraffico, reso consapevole
dalla sua provenienza, l’Argentina,
parte di un Continente che sta soffrendo
questa piaga in maniera terribile. È un’occasione
storica! Vibrano ancora nel mio cuore le parole
di Giovanni Paolo II ad Agrigento: ero piccolo,
eppure ricordo ancora il vento che soffiava,
quel momento incredibile... Che la lotta alla
mafia e al narcotraffico possa tornare centrale
grazie a un Papa che conosce questo dramma!».
E il suo pensiero su Puglisi, il prete da poco
beato? «Senza sentirmi retorico, da meridionale,
da persona che ha vissuto in quelle terre,
posso dire che la Chiesa è stata la vera avanguardia
contro le mafie. Un’altra parte è stata,
e temo ancora sia, connivente e fragile, ma a
porsi in prima linea contro i clan è stata proprio
la Chiesa, quella che ho visto da vicino,
quella di molti sacerdoti sconosciuti che in tante
zone del Sud sono l’unica presenza contro i
poteri peggiori. Il mio sogno? Don Puglisi e
don Diana santi. È difficile emulare un santo,
quando è l’uomo del miracolo. Santificare
questi due sacerdoti significa invece creare
la sintassi della nuova santità come impegno
quotidiano, empatia, solidarietà».
Ascoltandolo, si dimentica facilmente che
si è di fronte a un ragazzo di 33 anni, autore
di uno dei più clamorosi casi editoriali dell’ultimo
decennio, esposto di continuo a un doppio
sguardo, quello della gente che lo acclama
come un guru o, all’opposto, come un falso,
e quello degli agenti della scorta. Viene
spontaneo chiedergli come è nata, in lui, la
passione per temi così duri, la camorra prima
e la cocaina poi, quell’abisso di cui lui
stesso parla in Zero zero zero. «Non dalla famiglia:
mia madre è geochimica, mio padre
medico, il ramo materno è del Nord, quello
paterno del Sud... È stata la geografia. Il mio
sentirmi a disagio dove vivevo, l’inclinazione
alla malinconia mi hanno indotto a scrutare
nelle dinamiche che mi rendevano infelice.
Avevo vicino un mare meraviglioso, a Castel
Volturno, ed era stato reso una fogna dai clan.
Il lavoro era un miraggio. La dignità sembrava
fondata solo sulla capacità di intimidire...
Non ne potevo più. Ho trasformato i miei stati
d’animo nella volontà di capire l’origine di
tali assurdità, nell’ambizione di dire: io sono
diverso, racconterò a tutti la verità. Di questo
hanno paura i mafiosi: non che la verità venga svelata, ma che venga diffusa. Ed è la ragione
per cui non ho paura di espormi sui
giornali e in televisione».
Zero zero zero si chiude con un toccante ringraziamento
alla famiglia: «Provo un grande
senso di colpa. Io, almeno, pago il prezzo del
mio lavoro, e ne faccio vita attiva. Loro ne subiscono
solo gli svantaggi. Sono andati a vivere
altrove, hanno dovuto nascondere la propria
identità. Risentono degli odi destinati a me,
sono feriti dalle battute sarcastiche: “Ecco
che arriva lamammadell’eroe, la zia del superman
napoletano”». Saviano vorrebbe invece
essere considerato semplicemente uno scrittore,
«né un simbolo né un martire né un eroe:
l’eroe è morto e non sbaglia, io sono vivo e voglio
poter sbagliare».
Tornando indietro, ripeterebbe
gli stessi passi? «A volte ci penso, e mi
faccio anche un po’ pena. Quello che più mi dispiace,
è che è accaduto tutto troppo presto, mi
sono state negate le esperienze tipiche della
mia età. Ne è valsa la pena? No. È una risposta
codarda, ma la più vera. Rifarei tutto quello
che ho fatto, ma con più prudenza. Scriverei
Gomorra in forma più raccontata, eviterei un
attacco diretto come quello di Casal di Principe...
forse. Non rinnego nulla e continuerò la
mia battaglia, ma tornando indietro…».
A infondergli forza sono i ragazzi più giovani:
«Arrivano alle presentazioni accompagnati
dai genitori, come se andassero al concerto
di Vasco Rossi. Sono liberi da ideologie,
privi del livore che ha divorato la mia
generazione, aperti alla possibilità di inventare
un mondo nuovo... Mi raccontano che,
spinti dai miei libri, vogliono diventare magistrati,
poliziotti, giornalisti... Metterei il mondo
nelle loro mani. È bello, e se a uno scrittore
accadono cose come questa...».
Paolo Perazzolo
Caro Roberto,
purtroppo non sei
il primo che propone, anche se
con con un’infinità di incertezze
frammiste a ossessioni, la
legalizzazione della droga. Anche
per te sarebbe un male, ma,
diciamo, minore; ammesso che
esistano i mali minori. Io speravo
che, sapendo e scrivendo tutto
quello che hai scritto, avresti
avuto il coraggio di battere
l’altra strada, altrettanto
importante e forte, cioè quella della prevenzione e dell’educazione. Anche tu,
preso dagli aspetti politici, illegali, violenti e sempre in aumento, hai mollato
le braccia. La mafia c’entra e ha un peso spaventoso, drammatico. Sono il primo
a dirlo, sapendo quello che dico.
Forse non lo sai, ma con Exodus sono in cinque
località della Calabria da vent’anni. Non ho mai fatto chiasso, perché le mie tesi
sono altre. Monsignor Giancarlo Bregantini mi ha offerto ad Africo una struttura
e dentro abbiamo attività giovanili, parascolastiche, corsi per genitori. I risultati
lenti, piccoli, poco visibili stanno emergendo. Io vengo dal mondo dell’oratorio,
dello scoutismo e della pedagogia. A mio rischio sono, oltre che ad Africo, a
Santo Stefano in Aspromonte, a Reggio Calabria, a Caccuri, a Tursi. Ho rischiato
e rischio la vita.
Prima di lanciare certe tesi non ti pare che uno come te
potrebbe sentire qualcuno come noi? Voi avete un’idea distorta e preconcetta
degli operatori di comunità. Non siamo così ignoranti e prefissati da non capire
e da non farci domande. Il guaio è che, troppi di voi, non sanno quali profonde
radici e potenzialità abbia l’educazione. La tua tesi libera tutti gli adulti, genitori,
insegnanti, servizi sociali, animatori, dalle loro pesanti responsabilità, non
delegabili. È vecchia la tesi, proposta dal buon Adamo, nella quale si accusava
Eva del male accaduto.
Mettiamoci attorno a un tavolo e riflettiamo a 360
gradi sulle conseguenze drammatiche che questa società edonista, egoista
e superficiale non vuole esaminare e approfondire. Da ultimo, anche
risolvessimo il problema della droga, caro Roberto, non avremmo risolto niente.
L’alcol, il gioco, la violenza, la pedofilia, la prostituzione, il femminicidio,
l’evasione e l’immoralità politica dove li mettiamo? Sono forse mali minori?
Con affetto, tuo don Antonio Mazzi
Raffaele Cantone ha guardato in faccia il mondo di Gomorra per molto
tempo, ha indagato a lungo sui Casalesi, portando a termine il processo
Spartacus. Oggi lavora presso il massimario della Cassazione, ma il
casertano resta la sua terra di persona e di magistrato. E da magistrato
ha letto per noi ZeroZeroZero.
Dottor Cantone, il libro è un’indagine a suo modo. Com’è vista da chi ha indagato per professione?
«Io credo che il tema affrontato sia particolarmente importante, perché
la cocaina è una droga su cui c’è stata una grande sottovalutazione
sociale. Si è pensato per molto tempo erronamente che fosse una droga
meno sporca, una droga che non faceva morire, che non portava
dipendenza. Anche per l’operazione di "marketing" che c’è stata attorno, la cocaina si è diffusa in modo esagerato, anche perché le strategie
di mercato del narcotraffico hanno fatto scendere i prezzi fino a
renderla "popolare". Naturalmente Saviano racconta a modo suo,
attraverso le storie, in questo senso, nella ricerca delle storie, è un
libro di indagine. Il libro, senza un filo logico preciso, ha uno schema
analogo a quello di Gomorra: attraverso le persone racconta fatti».
Capita che gli si rimproveri di non raccontare davvero fatti nuovi, condivide la critica?
«Mi pare un problema mal posto: difficilmente parlando di certi argomenti si fanno scoop. Gomorra
su cui possiamo ragionare, perché è un caso che potremmo definire
posato, ha avuto il merito di rendere le vicende della camorra
intelligibili a tutti. Davvero tutti sapevano? Direi proprio di no, solo
quelli che leggevano ogni giorno i giornali del casertano potevano
riconoscere vicende note. Un conto è dire che determinati fatti
sarebbero in teoria a tutti conoscibili, altro è dire che siano
effettivamente conosciuti. L’originalità è un di più che si chiede
all'opera d'arte, ma il merito di un libro è anche quello di far
arrivare i suoi contenuti alle persone».
Saviano è stato più volte accusato di diffamare un territorio. Anche al
magistrato che indaga a volte arriva questa accusa: rivelare è
considerato un peccato. Anche questo è un problema mal posto?
«Nel caso di ZeroZeroZero è un'accusa improponibile. Non può essere sospettato di
diffamare un territorio, se non altro perché non è legato a un
territorio, ma parla di un problema diffuso ovunque. E’ vero si fa riferimento a
Milano, alla Calabria, a Scampia ma sono episodi tra tanti episodi. E comunque anche quando il
luogo c’è, mi pare che sia un discorso assai ipocrita. La domanda da farsi è:
“Le cose che si raccontano sono vere?” Io diffamo se racconto il falso
ma se io racconto il vero il problema è che
qualcuno aveva cercato di nascondere la verità»
Il libro contiene una forte provocazione: l’idea che per battere il
narcotraffico in fretta si debba affamarlo, cioè legalizzare. Condivide almeno in linea teorica?
«No. La mia è una convinzione basata sulla razionalità, io credo che un
legislatore non possa legiferare solo in termini utilitaristici, deve
porsi il problema degli effetti delle norme sulla società. E su quello
deve ragionare.
Io avrei dei dubbi anche sull’utilità di un simile intervento nel
contrasto al narcotraffico: si sposterebbe solo il problema
degli appetiti dal mercato illegale a quello legale. Faccio un esempio a
me caro: non mi pare proprio che legalizzare le scommesse abbia
tagliato le gambe alle mafie sulle scommesse clandestine, semmai ha
allargato i
loro interessi anche a quelle legali. Con il risultato che le mafie si
sono arricchite e cittadini sono diventati dipendenti. Se le droghe
fanno male, e fanno male, lo Stato non può proprio porsi la domanda,
perché allora
per paradosso domani potremmo anche proporre di legalizzare le
associazioni mafiose così utilizziamo i loro metodi e ci arricchiamo. Va
bene la provocazione, ma che provocazione resti, tra l’altro nessun
Paese ha mai legalizzato ogni tipo di
stupefacenti. Un motivo ci sarà?».
Saviano parla anche del disagio di riflettersi dell’abisso, di guardare
il male e imparare a ragionare come lui. E’ un problema che riguarda
anche voi, la fatica di andare avanti anche quando l’avversario sembra
più forte: la vivete lavorando, pur conservando l’ottimismo della
volontà che porta a continuare?
«Devo dire che io ho interpretato questo passaggio anche in un’altra
chiave. Quando Saviano dice che si specchia nell’abisso, a me dà l’idea
che ammetta di subire anche un minimo il fascino di questo
mondo. Del resto è un classico: nel ruolo dello scrittore in quanto
artista, un po’ come posa un po’ come verità, c'è anche storicamente è
contemplata una componente "maledetta". Da magistrato il mio punto di
vista è completamente diverso: se tu ritenessi che la camorra è un
mostro imbattibile la tua
diventerebbe un’attività velleitaria. Io personalmente non ho mai
pensato di aver di fronte un mondo impossibile da cambiare, per quanto
sicuramente molto difficile da
affrontare. Credo che il confronto tipico del
magistrato debba essere necessariamente improntato all’ottimismo. Il
pessimismo sarebbe il miglior aiuto alla criminalità organizzata».
Elisa Chiari
Un tempo era la Colombia. Oggi il Messico. Il narcotraffico, piaga scavata nel tessuto sociale ed economico dell'America latina e centrale - come documenta Saviano nel suo libro - , sta trascinando il Messico nel baratro. La Colombia, insieme a Perù e Bolivia, rimane il principale produttore mondiale di cocaina. Ma negli ultimi anni il potere delle Forze armate rivoluzionarie (Farc), i gruppi guerriglieri colombiani legati al narcotraffico, si è inesorabilmente sfaldato, anche a seguito della guerra lanciata dall'ex presidente Uribe, che aveva messo la questione sicurezza nazionale tra le sue priorità. Già nel 2008 il gruppo aveva subìto un pesante colpo con l'uccisione del suo leader, Manuel Marulanda, detto "Tirofijo", e nel 2010 è stata la volta del numero due, il "Mono Jojoy", famigerato in tutta l'America latina.
Tra Governo e guerriglieri ormai da mesi è in corso un impegnativo e controverso processo di pace all'Avana (Cuba), che dovrebbe mettere la parola fine a un conflitto interno durato per mezzo secolo. E solo pochi giorni fa le due parti hanno raggiunto un fondamentale accordo sulla riforma agraria, la questione all'origine della nascita della Farc e del sanguinoso conflitto. L'accordo prevede un piano di sviluppo economico-sociale delle aree rurali, con la concessione di terre ai contadini. Inoltre il Governo si impegna a costruire servizi e infrastrutture nelle zone agricole. In questi anni la Colombia ha compiuto enormi passi avanti sul piano della sicurezza e della stabilità interna. Sta puntando sul turismo e su una rinnovata immagine del Paese che lo svincoli dal riferimento diretto alla droga e al narcotraffico.
Ora, il vero inferno del narcotraffico in America latina è il Messico. Porta d'accesso agli Stati Uniti, verso cui è diretta la maggior parte dei traffici, in questo Paese i cartelli della droga hanno conquistato un potere sterminato, tanto da avere sottoposto al loro diretto controllo vaste aree del territorio nazionale. Per il Governo messicano - prima quello di Felipe Calderon, adesso del suo successore Enrique Peña Nieto, insediatosi a dicembre del 2012 - si tratta di una questione di Stato, di una guerra da combattere con il pugno di ferro.
Un conflitto efferato, sanguinoso, che devasta soprattutto le zone di frontiera, lo Stato di Chihuahua, al confine col Texas: qui, Ciudad Juarez è conosciuta come una delle città più pericolose del mondo. Dal 2006 la violenza dei narcos ha lasciato sul campo quasi 70mila vittime (tra i morti e le persone scomparse nel nulla, fra cui bambini e tantissime donne), vittime degli scontri tra i diversi cartelli che si contendono la gestione e il controllo dei traffici internazionali, soprattutto verso gli Usa. Gli omicidi spesso vengono compiuti in modo particolarmente macabro e spettacolare - ad esempio lasciando i cadaveri deturpati e mutilati lungo le strade, appesi ai cavalcavia, per renderli visibili a tutti - come monito per chi si azzardasse a ostacolare le attività illegali di un dato gruppo. I cartelli attualmente attivi sarebbero dodici, ma ad essi se ne sono aggiunti altri più piccoli, nati dalla frantumazione di quelli maggiori. Il panorama dei cartelli, dunque, è diventato particolarmente complesso, una sorta di mosaico di gruppi maggiori e minori, difficile da definire e circoscrivere.
Della guerra dei narcos anche i giornalisti sono vittime. Così, oggi, i media nazionali sono sempre meno disposti a raccontare lo scempio del narcotraffico, per paura delle ritorsioni. E le denunce passano soprattutto attraverso l'opera volontaria e coraggiosa dei blogger che, attraverso la Rete, cercano di rompere il silenzio e far conoscere l'inferno dei messicani al resto del mondo.
Giulia Cerqueti
Un libro che non è solo un libro e un autore che non è solo un autore,
perché funziona tutto molto meglio se attorno al libro si crea l’evento
e se l’autore è anche un personaggio. Roberto Saviano e il suo ZeroZeroZero sono figli, forse loro malgrado, di un tempo in cui l’editoria funziona, anche così.
E allora Milano è il bagno di una folla che aspetta all’umido di
entrare per la prima presentazione: giovani, signore, fidanzati in fila
per due, irrisi da un ragazzo che passa e deve fendere il serpentone per
guadagnare il semaforo. E lo fa, con tono di sfottò, al grido di:
«Regalano soldi? Regalano soldi?». No. Non regalano soldi si fa la fila
per un libro che nasce, e in un Paese a prevalenza di non lettori è
certo un paradosso.
Non tutti sanno perché sono lì: il ragazzo con il telefonino se
la cava con un: «Non avevo niende da fare…», dove il “niente” è una
perifrasi triviale, detta con il tono neutro di chi non si pone il
problema di adeguare il campo metaforico all’interlocutore. La signora
bionda con la figlia, invece, lo sa benissimo, è una fedelissima: «Il lavoro di Saviano vale sempre una fila».
Dentro tanti ingannano l’attesa leggendo in piedi le prime pagine
ognuno per sé, una coppietta si sfiora le labbra con un bacio, un
signore telefona: «Vedrai che alla fine uscirò con la dedica».
Quando si affaccia Roberto Saviano, che i più troppo stipati intravedono appena, l’accoglienza è da concerto rock con tanto di fischi all’americana. Comprensibile, l'ha reso star il successo imprevisto di Gomorra,
romanzo con molto di documentario. Era il 2006 e nessuno si immaginava
che il libro di un esordiente, su un tema arduo e aspro come la camorra,
avrebbe scalato le classifiche: 2 milioni e mezzo in Italia 3 e mezzo
nel mondo, best seller in molti Paesi, tra i 100 libri dell'anno per l'Economist e il New York Times. Il resto l'ha fatto una faccia diventata nota in Tv.E invece è accaduto.
Ma il clima da star system cambia appena si parla, perché non è rock e neanche normale quello che si vive e si dice. Non sono normalità gli agenti che scrutano il pubblico con lo sguardo appuntito. Non
è normalità una vita, lo dice Saviano per primo, che da sette anni, dal
successo di Gomorra che ha portato in dote anche un corredo di minacce e
rischi seri, è un oscillare tra minuti di folla e giorni di solitudine
protetta, in cui né in un caso né nell’altro sei padrone della tua
libertà. Si sorride sì, ma è sorriso amaro, quando dice: «Le statistiche
dicono cinque su cento tirano di coca, per divertirsi, per lavorare di
più, semplicemente per tollerare la vita. Vuol dire uno su venti. E’
inutile che vi guardiate, qualcuno anche tra noi, sì, se non qui là
fuori tra quelli che passano sul tram, per la strada, nel vostro
ufficio, dovunque si vada». Il popolo che ascolta si conta:
quattrocento paia di occhi più o meno si voltano verso il vicino, come
per chiedersi sarà forse lui? E intanto si dice di quel fiume bianco e carsico che muove un’impresa criminale di incomparabile redditività, figlia di un’economia criminale che entra in quella sana e non se ne esce.
I sorrisi si sono spenti, il clima da concerto pure: è calato un silenzio greve,
dove passano solo le parole del giovane scrittore rapato a zero, con la
bocca incisa come quelle dei bambini che, pur sentendosi dalla parte
giusta, ammette di non piacersi: «Potrei dire parafrasando Nietzsche
che quando guardi troppo a lungo nel fondo dell’abisso, l’abisso prima o
poi guarda dentro di te. E’ questo che provo scavando nelle storie
di una ferocia cui non vorrei credere. Quando le trovi ti dici, non è
vero, non è possibile. Avevo pensato di rifugiarmi nel romanzo, di
accontentarmi del verosimile, ma ho capito che non ci riesco: queste
storie vere di inaudita ferocia ti entrano e non se ne vanno, devo
raccontarle, perché chi legge mi metta in discussione, perché mi dica
non ci credo e vada a verificare, perché cerchi di sapere, di non
voltarsi di là».
Saviano sa bene, anche se non lo dice, che c’è chi lo chiama guru,
chi pensa che la sua vita blindata sia pubblicità che funziona, che
sia sostanzialmente un privilegio. Lo sa e spiazza: «Quando vivi, come
me, immerso nella “saittella”, nella fogna come si dice dalle mie parti,
l’abisso che ti guarda diventa un’attitudine, sei costretto a guardare
le ombre, a non fidarti di niente, a ragionare come il peggio
dell’umanità che hai davanti e che racconti. Tante volte mi dico che no,
non lo rifarei. Che avrei potuto trovare altre strade. Sarà paradossale
ma ti accorgi che non ti piace quello che sei diventato, io non voglio
essere un genere: Baggio ha il codino, Rocco ha la pubblicità delle
patatine, Saviano la scorta. Quando sono in difficoltà mi rifugio, io
microbo, nelle parole di Giovanni Falcone, di Primo Levi, ma vorrei tanto poter telefonare al me stesso di 18 anni e dirgli: “Quello che vedi ti trasformerà, non torni indietro. Pensaci”.
A volte mi tornano le parole con cui Primo Levi descrive il suo sogno
ricorrente in lager, tornare a casa, mangiare, raccontare e non essere
creduto mentre tutti gli altri non ascoltano o vanno via, perché non
credono perché non vogliono sentire».
Ma raccontare, rompere la scorza di silenzio che permette alle mafie di lavorare e al mercato della coca di prosperare, è la sola alternativa per far emergere il fiume carsico e arginarlo: «Ce ne sarebbe un’altra più diretta e brutale, affamare le mafie legalizzando la coca, ma è una soluzione moralmente discutibile».
E allora non resta che raccontare: «Se tu diventi chiavica nel
raccontare chi legge e vuole sapere ti migliora». È qui il senso del
verso di Blaga Dimitrova posto in esergo a ZeroZeroZero, che ha venduto 150.000 in una settimana: «Nessuna paura che mi calpestino. L’erba calpestata diventa un sentiero».
Dal fondo quando l’applauso si spegne si alza una voce pacata: «Grazie».
E’ la stessa parola con cui il libro si chiude, nelle due pagine di
ringraziamenti, la stessa implicita nella dedica: «A tutti i carabinieri
della mia scorta. Alle 38.000 trascorse insieme. E a quelle ancora da
trascorrere. Ovunque». Saviano sa, anche se non lo dice, che ci sarà
sempre qualcuno che chiederà quanto costano, facendo finta di non
sapere che quel fiume di polvere bianca, negato da troppi e da troppi
fruito, grava sulle nostre spesso ignare vite infinitamente di più.
Elisa Chiari