Francesco Saverio Agresti, il comandante della Joint Air Task Force (Foto di Romina Gobbo).
«Quando sgancio una bomba, non posso non chiedermi che cosa succederà, dove colpirà, quali effetti produrrà. E questo, sempre», dice il colonnello Francesco Saverio Agresti, comandante della Joint Air Task Force (JATF), la componente aerea del Regional Command West (RC-W), il comando multinazionale a guida italiana, con base a Camp Arena, ad Herat, in Afghanistan. Il dibattito oggi si focalizza sui velivoli senza pilota, i cosiddetti droni, che permettono di essere presenti virtualmente, senza esserlo fisicamente. In Pakistan, Yemen e Somalia i droni americani hanno effettuato più di 450 attacchi, con oltre tremila vittime tra militanti e civili (dati dell'ebook “La guerra dei droni” del progetto editoriale iMerica). I velivoli italiani per il momento non sono armati, assolvono a funzioni di sorveglianza, ma la possibilità dell'armamento è al vaglio delle forze armate.
Colonnello Agresti, il problema di coscienza viene da lontano.
«Certo, dover sparare crea sempre dei turbamenti. Adesso fa molto discutere il fatto che qualcuno da una cabina possa impiegare armamento in una situazione di guerra, ma, secondo me, questo è un problema insito nel principio della guerra aerea. Sono un pilota; ho prestato servizio in Bosnia e in Sudamerica, perciò parlo per esperienza diretta. La spersonalizzazione, cioè il fatto che un aviatore non guardi in faccia il proprio nemico, è sempre esistita. Il pilota non vive a livello personale l'emotività del faccia a faccia; l'esperienza del combattimento a distanza è nata con l'aviazione militare. I piloti americani andavano a combattere a Dresda, poi la sera atterravano e andavano a cena. L'aviatore non sa dove esattamente sta impattando l'armamento che ha impiegato, non riesce a vedere l'effetto della sua azione. La questione etica esiste a prescindere dal fatto che il pilotaggio sia a bordo o a distanza. Certo, la tecnologia ha modificato un po' i termini, ha evidenziato nuovi aspetti».
La questione etica è stata sollevata lo scorso 14 novembre anche dall'arcivescovo Silvano Tomasi, rappresentante permanente della Santa Sede all'Onu di Ginevra, nell'ambito dell'incontro annuale dei Paesi firmatari della Convenzione per interdire o limitare l'uso di armi dagli effetti traumatici eccessivi o indiscriminati come, appunto, i droni armati. Nel suo intervento, monsignor Tomasi aveva invitato la comunità internazionale a ragionare “sull'incapacità dei sistemi tecnici automatici preprogrammati di dare giudizi morali su vita e morte, di rispettare i diritti umani e di osservare il principio di umanità”. Perché il rischio è che “questo contesto di guerra disumanizzante” possa rendere “più attraente entrare in guerra”.
«Il problema vero è che il pilota non è una macchina e non deve mai esserlo», riprende il colonnello Agresti. «Piloti e operatori devono essere preparati, capaci di umanità e ben coscienti di quanto stanno facendo. I nostri ragazzi vogliono essere consapevoli quanto più possibile degli effetti dell'impiego dell'armamento. Vogliono la garanzia che l'intervento resti proporzionato, perciò – ripeto – il problema non è dove metto l'operatore, ma da com'è la sua testa, e questo è un fattore culturale e di formazione. Noi interveniamo per soddisfare un'esigenza più alta di sicurezza della popolazione, oppure semplicemente perché è un nostro dovere».
«Il fatto che veniamo mandati in missione a svolgere un certo compito, resta per me fondamentale. Io sono un servitore della patria. Le decisioni le prendono i responsabili della mia nazione; io faccio quello che devo fare, sperando che quelle decisioni prese a livello alto siano le più giuste. Sono cattolico e non nascondo di aver vissuto in alcuni momenti un profondo turbamento interiore; lo si supera aggrappandosi ai valori veri. Nella professione militare, noi italiani portiamo il nostro DNA: siamo per natura abituati a essere pazienti».
«Il grilletto facile non ci appartiene culturalmente, e con culturalmente intendo la cultura nazionale, la cultura delle forze armate e la cultura dell'aeronautica. E poi la formazione che riceviamo è francamente una “nota di garanzia”, rispettiamo le regole di ingaggio (regole comportamentali date ai contingenti, ai singoli comandi o ai singoli soldati per rispondere al meglio al dettato della missione, ndr), rispettiamo i caveat (limiti imposti dalla politica all'utilizzo dei contingenti militari assegnati a un comando internazionale, ndr). C'è un alto livello di attenzione che sicuramente in un ambiente operativo come quello afghano è richiesto. Qui dobbiamo stare molto attenti e noi la responsabilità di questa prudenza la sentiamo tutta. Perciò, l'utilizzo di droni armati in determinati contesti è parte di un problema complesso e molto più ricco di sfaccettature di quello che si possa pensare; il rischio è di semplificare troppo e le semplificazioni non aiutano la comprensione».