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sabato 07 settembre 2024
 
 

«Due sedute frettolose bastano per dire che mia figlia è dislessica?»

20/12/2017 

A mia figlia Carolina di 13 anni è stata diagnosticata una lieve forma di dislessia e disortografia. La diagnosi è avvenuta in due sedute in cui sono stati fatti molti test uno dopo l’altro. È vero che ha sempre avuto difficoltà a scuola, pur essendo una ragazza vivace e intelligente. Però sono un po’ perplessa: mi sembra che abbia fatto le prove con ansia e anche che fosse piuttosto stanca alla fine. Non vorrei che fosse stata una diagnosi un po’ frettolosa.

ANNA LUCIA

— Il lavoro del clinico, medico o psicologo, impone sempre la capacità di fare una diagnosi e indicare la cura (che non coincide in modo automatico con la guarigione). Si tratta di due compiti delicati e complessi, soprattutto il primo. Infatti una corretta diagnosi dà un nome a un insieme di sintomi diversi e ci aiuta a capire come affrontare adeguatamente la situazione di difficoltà. La parola “diagnosi” rimanda all’idea di riconoscere qualcosa attraverso una serie di segnali. Bisogna però capire quali segnali considerare e quale peso dare. Capita infatti qualche volta che ci si soffermi solo su quelli più evidenti e facili da rilevare. Che Carolina abbia delle difficoltà è innegabile, dice la mamma. Ma per raccogliere i segnali giusti del suo disturbo forse non basta prenderle rapidamente le misure, senza accordarsi con lei sul senso di quello che si sta facendo. La valutazione ha come fine la diagnosi, ma deve inquadrare la situazione nel suo contesto più ampio. Questo significa che non basta andare subito alla ricerca dei punti deboli. Soprattutto con un adolescente, occorre che il senso del lavoro che si sta facendo sia quello di un aiuto al ragazzo per capirci qualcosa di più, e non solo la misurazione di una difficoltà, per quanto corretta sul piano degli strumenti e dell’elaborazione statistica. Sottoporla in prima battuta a una batteria di test mi sembra che non consenta alla ragazza di riconoscere che è lì per capire meglio come e perché impara. Prima bisogna costruire una relazione, un terreno comune e condiviso, senza il quale la prestazione potrà essere condizionata dall’ansia, dal timore di sbagliare e fare brutta figura, o da altri elementi. Occorre qualche tempo in più, ma si evitano distorsioni nella raccolta dei dati. A essa segue poi la valutazione del clinico, che non può tenere conto unicamente dei numeri raccolti con i test. Soprattutto in quei casi, e sono la maggioranza, in cui i numeri stessi non sono così chiari da interpretare, a causa delle variazioni di prestazione che registrano. Fare diagnosi non è un’attività di calcolo statistico, ma interpretativa: se no, basterebbero delle prove computerizzate che in pochissimo tempo danno i risultati.

 
 
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