L'Africa torna al centro del dibattito sul cambiamento climatico, con la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite, che si apre oggi a Durban. Se due anni fa alla Conferenza di Copenhagen i Paesi africani si erano fatti sentire, in quanto prime vittime delle ingiustizie sociali causate dal clima che cambia, ora il Sud Africa fa gli onori di casa. E deve dimostrare la leadership su questo fronte, in quanto il Paese è il principale emettitore di CO2 del continente.
La partita è impegnativa: il primo periodo degli impegni del Protocollo di Kyoto termina nel 2012 e si attende un segnale chiaro sulle azioni che i Paesi intraprenderanno nel secondo periodo per salvare il pianeta e la popolazione. A Durban i leader dei governi possono rafforzare i progressi compiuti finora e impegnarsi per prevenire cambiamenti climatici fuori controllo, oppure possono lasciare che gli interessi nazionali a breve termine spingano il mondo verso un riscaldamento globale di 3-4 °C, che sarebbe una vera tragedia.
«In questo momento i governi non pensano al clima perché impegnati ad affrontare le contingenze e la crisi economica, ma come dimostrano anche i recenti eventi climatici italiani, se non si affrontano i problemi alla radice non riusciremo neanche a gestirne le conseguenze», afferma Mariagrazia Midulla, responsabile Clima del WWF Italia. «Dopo vent’anni di economia di carta, il mondo sta tornando alla realtà fisica dell’economia reale: così Durban deve riportare il mondo alla realtà scientifica del cambiamento climatico e delle sue conseguenze, eliminando le scappatoie esistenti».
Secondo gli ambientalisti è fondamentale che venga definito un secondo periodo per il Protocollo di Kyoto, a oggi l’unico accordo internazionale legalmente vincolante, oltre che - per i Paesi in via di sviluppo - la cartina di tornasole della volontà di agire dei Paesi sviluppati. Un accordo che non è bastato comunque sinora per ridurre le emissioni serra, cresciute del 38 per cento tra il 1990 e il 2009.
«L’Unione Europea è impegnata in quel sistema di regole multilaterali che è il Protocollo di Kyoto. Ma una seconda fase con solo l’UE, o quasi, coinvolta in questo accordo consentirebbe di coprire appena l’11% delle emissioni globali. Questo non può costituire un successo a Durban. Che cosa avviene per il restante 89% delle emissioni mondiali? Quando e come questi altri Paesi saranno impegnati?», si chiede Connie Hedegaard, Commissaria europea per l'Azione per il Clima. «La posta in gioco a Durban è garantire che tutti i Paesi, sviluppati ed emergenti, si impegnino a contribuire per la loro parte in un quadro di accordo globale».
Dello stesso avviso anche Greenpeace, secondo cui anche Paesi emergenti come India e Cina devono fare la loro parte. Con l'assenza di Usa, Cina, India e Brasile, il tratto copre ormai, infatti, meno del 30% delle emissioni globali. «Pare insensato continuare a investire miliardi di euro nei combustibili fossili invece che nelle fonti rinnovabili».
Per l’Unione Europea la riduzione delle emissioni non è un’opzione ma una necessità: l'obiettivo adottato del 20% di riduzione è largamente al di sotto delle possibilità del continente e non conviene nemmeno all’economia, tanto che anche dal mondo industriale è arrivata la richiesta di impegni più stringenti.