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venerdì 02 giugno 2023
 
 

Conclave: scocca l'ora dell'Africa?

21/02/2013  Un cristianesimo in forte crescita, rappresentato da 11 cardinali. La forte connotazione spirituale, le insidie del confronto con l'islam.

«Un tesoro prezioso è presente nell’anima dell’Africa, in cui scorgo un immenso “polmone” spirituale per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza, grazie alle straordinarie ricchezze umane e spirituali dei suoi figli, delle sue culture multicolori». Così Benedetto XVI definiva il Continente nero e la sua Chiesa nel novembre del 2011, quando a Ouidah, in Benin, consegnava l’Esortazione apostolica “Africae Munus”, scritta in risposta al II Sinodo africano.

Sinodo che era stato dedicato al tema “Riconciliazione, giustizia e pace”, considerato cruciale nella terra dei conflitti, delle pandemie e delle più eclatanti contraddizioni e ingiustizie sociali. Un appuntamento che seguiva a distanza di 15 anni il primo Sinodo della Chiesa africana, voluto da Giovanni Paolo II nel 1994.

Era opportuno, al termine del primo decennio di questo terzo millennio», scriveva Benedetto XVI, «ravvivare la nostra fede e la nostra speranza per contribuire a costruire un’Africa riconciliata, attraverso le vie della verità e della giustizia, dell’amore e della pace». Il Papa ricordava anche il risultato più importante del Sinodo del 1994 nell’aver rivelato la «vitalità ecclesiale eccezionale e lo sviluppo teologico della Chiesa come Famiglia di Dio».

Il secondo Sinodo della Chiesa africana, poco più di una anno fa, ha “fotografato”, sia nel documento finale dei vescovi (“Alzati, Africa”) sia nella successiva Esortazione del Papa, le luci e le ombre del Continente: «La scienza e la tecnologia fanno passi da gigante», scrivevano i presuli nel documento finale, «per fare del nostro pianeta un luogo meraviglioso per tutti noi. Tuttavia situazioni tragiche di rifugiati, povertà estrema, malattie e fame uccidono tuttora migliaia di persone ogni giorno. In tutto questo, l’Africa è la più colpita. Essa è ricca di risorse umane e naturali, ma molti del nostro popolo sono lasciati a dibattersi nella povertà e nella miseria, in guerre e conflitti. Molto raramente tutto ciò è causato da disastri naturali. Piuttosto è dovuto in larga misura a decisioni e azioni umane», spesso per la «cospirazione criminale tra responsabili locali e interessi stranieri».

Il Papa aveva fatto propria l’analisi dell’episcopato africano, come pure l’indicazione che «riconciliazione e giustizia sono i due presupposti essenziali della pace». «La costruzione di un ordine sociale giusto», insisteva Benedetto XVI, «compete senza dubbio alla sfera politica. Tuttavia, uno dei compiti della Chiesa in Africa consiste nel formare coscienze rette e recettive delle esigenze della giustizia».

Insomma, una Chiesa, quella africana, in crescita, ricca di vitalità e di energie. I cattolici in Africa rappresentano circa il 17 per cento della popolazione totale. Se poi si considerano, nell’insieme, le diverse confessioni (protestanti, copti) il cristianesimo è la più diffusa religione del Continente. Ed è in crescita. Osservando i dati anno per anno, risulta che l’aumento dei cattolici si aggira sempre fra i quattro e i cinque milioni sull’anno precedente. Se erano 55 milioni nel 1978, oggi sono poco oltre i 160 milioni e la previsione è che arrivino a 230 milioni nel 2025.

Quanto al clero, mentre in Europa e in America i seminaristi sono diminuiti del 10 per cento negli ultimi cinque anni, in Africa sono aumentati del 14 per cento.

Tuttavia, la Chiesa d’Africa si trova anche a misurarsi con enormi problemi e contraddizioni: «Prima di tutto la povertà, uno dei frutti di un sistema ingiusto, sia continentale che internazionale», dice padre Michael Czerny, uno dei fondatori dell’Ajan, la rete dei gesuiti africani contro l’Aids. «Nel 2000, quando esordì l’Ajan, si diceva che l’Aids era la più grande minaccia dopo la tratta degli schiavi. Ma non si sottolineava, e non lo si fa neanche ora, quanto il suo flagello sia connesso all’indigenza: la stessa persona, se la togli dalla miseria, se è ben nutrita, se ha i farmaci, se è sensibilizzata al problema, corre rischi di gran lunga inferiori di essere colpita dall’Aids. Come Chiesa, possiamo fare molto: ogni parrocchia, ogni singolo cristiano può fare di più. Ma c’è bisogno di mezzi, uomini, energie, denaro. La Chiesa cerca di dare una risposta complessiva e integrale al dramma della povertà e delle sue conseguenze, come le pandemie».

Quanto alla via per risolvere il cronico problema del sottosviluppo, l’ha indicata ripetutamente il cardinale Peter Turkson – il più accreditato tra gli africani come “papabile” – presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace: «Come ha scritto il Papa nell’enciclica “Caritas in veritate”, c’è la necessità di introdurre l’uomo come criterio di base dell’economia, della finanza, del progresso tecnologico. Uno sviluppo che non assiste lo sviluppo della persona non può essere considerato vero sviluppo. Va umanizzata l’economia, anche attraverso l’introduzione di un organismo mondiale che possa guidare un mondo sempre più globalizzato».

Altra grande questione è quella dei conflitti, alla quale si è affiancato negli ultimi anni il crescere delle tensioni con l’estremismo musulmano (specie in Somalia, Nigeria, Mali). «La Chiesa continua ad avvertire che l’islam del terrorismo non è voluto dalla gente, che piuttosto lo subisce. La tradizione africana è di un islam tollerante con cui si può dialogare», dice padre Efrem Tresoldi, direttore di Nigrizia. «Sui conflitti mi sembra quanto mai attuale il tema della riconciliazione dell’ultmo sinodo. Paesi come il Sudafrica, dove sono stato per 20 anni missionario, oppure come il Congo e il Sudan che hanno avuto guerre con milioni di vittime, non possono che percorrere la strada del perdono nella giustizia e nella verità».

«Come diceva Desmond Tutu», continua Tresoldi, «un Paese che non riconosce le verità scomode del passato e destinato a ripeterle. La Chiesa, col modello di Cristo, ha molto da dire su questo, e trova nella tradizione culturale africana facile accoglienza: perché la riconciliazione è intesa come riabilitazione della vittima insieme a quella di chi ha commesso il male, attraverso l’ammissione della colpa e il reintegro nella comunità».

Non mancano le ombre. È ancora il direttore di Nigrizia a sottolineare che «avrebbe bisogno di maggior slancio l’impegno per la giustizia e la pace. Occorre maggiore capacità di profezia. La Chiesa africana non può non denunciare tanto sperpero di risorse da parte delle elite al potere, specie in armamenti. L’impegno sui diritti umani e sul diritto di espressione è uno dei compiti che la Chiesa è chiamata ad affrontare. Nel sinodo è emerso, ma occorre che diventi pratica quotidiana».

Luciano Scalettari

«Questa Chiesa ha una grande ricchezza. Un laicato generoso, magari non pienamente formato, ma con enorme disponibilità a servire la chiesa e i fratelli». Padre Renato Kizito Sesana, da molti anni missionario a Lusaka e poi a Nairobi, sta parlando della Chiesa africana, quella che considera ormai la “sua” chiesa.

«Benedetto XVI», aggiunge, «ebbe un’espressione quanto mai felice quando la descrisse come il “polmone spirituale dell’umanità”. «Un potenziale, quello dei cristiani d’Africa, certamente non sfruttato al massimo, perché la spinta che aveva portato al primo Sinodo del 1994 si è poi fermata. La Chiesa africana negli ultimi 15 anni ha segnato il passo».

– Perché, padre Kizito?


«Per diverse ragioni, una delle quali è che – questo va detto – l’azione di papa Benedetto XVI è stata molto eurocentrica. Ma anche prima del suo pontificato: diciamo che, nel momento in cui il dibattito ricco ed effervescente è arrivato al suo culmine, col Sinodo del 1994, anziché decollare gli è stata messa la sordina.

– Un esempio?

«La questione dell’inculturazione, ossia la modalità con cui l’Africa incarna il messaggio evangelico, è un processo rimasto ancora tutto da realizzare. Se n’era discusso molto negli anni ‘70 e ‘80. Mentre la Chiesa latinoamerica parlava di Teologia della liberazione, quella africana parlava di inculturazione. Ad esempio, prima del 1994 si era arrivati all’approvazione del rito liturgico zairese per l’Eucarestia. Non ce ne sono stati altri, né per altre aree culturali e linguistiche, né per gli altri sacramenti. Un altro esempio è il lavoro pastorale delle piccole comunità cristiane, che doveva servire a rendere la chiesa vicina alla gente: a partire dai primi anni ’90 è stato dimenticato. Quel cammino si è bloccato, ora c’è bisogno di riprenderlo».

– Si è fermato per cause interne o esterne?

«La responsabilità non è della Chiesa africana. Se ci domandiamo perché, la risposta non è molto bella. Si è scelto negli ultimi decenni di porre alla guida delle diocesi più dei buoni amministratori che dei grandi pastori. Forse per non correre rischi. Il risultato è che oggi sembrano mancare i grandi vescovi, come pure i grandi teologi che avevano caratterizzato la “primavera” del cristianesimo africano degli anni ’70. Forse solo Peter Turkson può essere paragonato a quelle figure di allora: dei veri punti di riferimento che non ci sono più».

– Come può essere stato letto il gesto delle dimissioni del Papa nel Continente nero?

«Credo sia un segno importante, anzi un vero dono fatto alla Chiesa alla fine del suo pontificato: dopo essersi posto di fronte a Dio e alla sua coscienza, ha deciso di rompere una tradizione secolare con un gesto di libertà e che apre alla novità. Le parole di Benedetto XVI pronunciate in questi giorni “sulle divisioni che talvolta deturpano il volto della Chiesa” sono un messaggio forte anche a quella parte del clero africano troppo attento alla “carriera”, che ha portato molti a “stare buoni” in attesa di una promozione. Paolo VI, nel 1969, sollecità l’Africa ad avere “un cristianesimo africano”, a far penetrare fin nel più profondo della vita e della cultura il messaggio evangelico. Ecco, oggi c’è bisogno di chi sappia liberare le sue enormi energie».

– Alcuni vescovi hanno detto esplicitamente che forse è ora di guardare fuori dall’Europa per il prossimo Pontefice. Un africano?

«Questa è una Chiesa che fa fatica, nell’attuale momento storico. È inutile il ritornello del papa africano. Temo che, se oggi esprimesse un papa, sarebbe comunque ben poco africano».

Luciano Scalettari

Credo che il tempo sia maturo per un Papa non europeo, ma non credo che sia già arrivata l’ora per un Papa dell’Africa nera e non per la mancanza di personalità forti in quelle comunità ecclesiali ma per il loro breve radicamento storico. Se le Chiese dell’Europa hanno troppa storia per lasciare libero il Papa di mettere mano alle grandi questioni che si profilano all’orizzonte, quelle dell’Africa forse ne hanno troppo poca per fornirgli il necessario supporto. Tuttavia se dovesse arrivare già ora un Papa nero sono sicuro che l’accoglienza sarebbe ottima sia dentro sia fuori la Chiesa.

L’avvento di un Papa africano darebbe un grande sostegno al superamento culturale del razzismo e di ogni discriminazione legata al colore della pelle che non sempre vuol dire pregiudizio razziale ma che spesso è semplice impreparazione all’accoglienza del diverso. Abbiamo ormai qualche esperienza della buona accettazione di sacerdoti africani in tante nostre parrocchie e del balzo culturale nell’accoglienza dello sconosciuto che quella presenza ha favorito anche presso le persone meno preparate a un tale contatto.

L’elezione di un Papa nero costituirebbe anche un forte richiamo all’intera famiglia dei popoli perché torni a occuparsi dell’Africa come culla di un’umanità arricchente per tutti e non solo come terra dotata di straordinarie risorse minerarie. Tra le Chiese cristiane le comunità africane sono molto amate per la tonalità di famiglia e di festa di cui sono portatrici.

Fuori dalle Chiese cristiane la situazione è meno rosea ma non bisogna dimenticare che gli Stati Uniti d’America hanno appena rieletto il loro primo presidente nero e che gli atleti di origine africana hanno avuto e hanno un crescente numero di ammiratori alle Olimpiadi e negli stadi di tutto il mondo. Un Papa nero darebbe una mano a guarire anche le persone più semplici dalle residue allergie nei confronti di un’umanità più colorata.

Luigi Accattoli
www.luigiaccattoli.it

Il cristianesimo africano, come raccontiamo in altra parte di questo Dossier ("Un polmone spirituale per l'umanità") vive una stagione di forte e vivace crescita. Forse non per caso, questa stagione è anche funestata da uno scontro con l'islam radicale che, per violenza e crudeltà, ha pochi precedenti storici.

Per provare a capire le ragioni di questa crisi, che dura ormai da almeno due decenni, possiamo cominciare col ricordare in modo sintetico alcune condizioni di fondo. Intanto, l'islam è profondamente radicato in Africa. I primi musulmani arrivarono in Etiopia, quando l’islam non era ancora affermato nella stessa penisola arabica, proprio per sfuggire alle persecuzioni degli arabi pagani. Il che naturalmente è anche la prima dimostrazione di una vicinanza geografica che ha poi sempre avuto molta importanza dal punto di vista delle reciproche influenze.

Già nel 709, con la sola eccezione della città-fortezza di Ceuta, le armate islamiche avevano il controllo dell’intero Nord-Africa e nel 710, da lì, lanciarono poi l’offensiva verso la penisola iberica. La religione e la cultura islamica, oltre naturalmente al colonialismo arabo, non meno aggressivo di quello europeo, hanno contribuito in modo significativo a definire l’Africa per ciò che essa è.

Oggi i musulmani sono tra il 45 e il 50% di tutti gli africani (mentre i cristiani sono tra 30 e 35%), il che significa che vive in Africa il 25% di tutti i musulmani del mondo.

Questo ci serve anche per riconoscere che lo scontro tra queste due grandi religioni, esuberanti nei numeri e facilmente strumentalizzabili a fini politici, in un certo senso è "normale". O comunque era prevedibile, e l'errore è stato guardare all’islamismo radicale e, poi, al terrorismo islamico come a un fenomeno del Medio Oriente, un fenomeno in qualche modo chiuso in una regione, definito da una serie di limiti geografici e culturali. Naturalmente il forte radicamento storico dell’islam in Africa non sarebbe certo bastato, da solo, a generare quella fioritura di violenza di cui in questi decenni abbiamo avuto testimonianze quasi quotidiane. Tanto più che l’islam africano ha storicamente caratteristiche proprie (l'influenza sufi, per esempio, o la perdurante influenza dei culti locali) che lo rendono poco incline all’estremismo religioso. Serviva altro. Ma che cosa, in particolare?

Su questo tema  la Rand Corporation un think tank americano fondato nel 1946 con il contributo del Dipartimento della Difesa, ha prodotto nel 2010 un lungo studio destinato, appunto, alle Forze Armate americane.

E' uno studio particolarmente interessante, per la qualità dell'approccio e anche per l'origine. I fattori che favoriscono l’insediamento dei gruppi estremisti e la diffusione del terrorismo sono così definiti:
1. Governi deboli o Stati collassati;
2. centri di potere e influenza alternativi a quello dello Stato (clan tribali, signori della guerra, cartelli criminali, gruppi separatisti);
3. una forte economia informale, per esempio quella ben rappresentata dall’hawala, i trasferimenti di denaro che non passano per le banche (solo le rimesse dei somali emigrati verso la Somalia valgono almeno 1 miliardo di dollari l’anno) o dal lavoro nero, che riguarda più del 50% dei lavoratori in Etiopia e quasi il 40% in Kenya;
4. confini poco e male controllati;
5. un facile accesso alle armi.

Nessuno di questi fattori è estraneo all’Africa che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni. Tutti sono inscrivibili nella generale crisi che ha investito il Continente nel periodo successivo all'entusiasmo per l'indipendenza e la fine del colonialismo.

Tutti questi fattori, per quanto altamente infiammabili, avevano bisogno di un innesco, di un fattore dterminante. Il rapporto Rand ne cita due: il colpo di Stato militare che nel 1989 portò al potere in Sudan il generale Al Bashir e il Fni (Fronte nazionale islamico) di Hassan al Turabi; e il tracollo della dittatura di Siad Barre in Somalia nel 1991. Personalmente, volendo seguire questa linea, ricorderei almeno anche la guerra civile in Algeria a cavallo del 1990-1992 dopo l’annullamento delle elezioni amministrative vinte dal Fis (Fonte islamico di salvezza nazionale). Nello stesso periodo sbarca in Africa, e precisamente in sudan, Osama bin Laden.



Naturalmente non possiamo seguire passo passo gli ultimi vent'anni della storia africana. Possiamo però dire che l'islam radicale, e ancor più l'islam violento del terrorismo, hanno senza sosta cercato di insinuarsi in tutte le fessure che le crisi continentali di volta in volta aprivano nel tessuto sociale di questo o quel Paese. Strategia collaudata, visto che già negli anni Quaranta i Fratelli Musulmani si erano preoccupati di inviare, dall'Egitto dov'erano stati fondati, piccoli gruppi di attivisti in Sudan per fare agitazione politica e religiosa tra i giovani di quel Paese che erano rientrati in patria dopo aver studiato nelle università del Cairo.

Fulvio Scaglione

Gli attacchi contro i cristiani, particolarmente frequenti ormai in Nigeria e in Kenya, rientrano non solo nella strategia di reazione a quella che Osama bin Laden definì la "crociata" (cristiana, occidentale, capitalistica, consumistica, ecc. ecc.) contro l'islam. I gruppi islamisti, che hanno subito e patito la reazione messa in atto dai diversi Governi nell'ambito della "guerra al terrore" lanciata dall'amministrazione Bush dopo l'attentato alle Torri Gemelle di New York, subendo molte perdite e perdendo molta della loro capacità operativa, hanno cominciato a cercare la saldatura con i movimenti locali, spesso in lotta con i Governi per ragioni assai diverse dallo scontro islam - cristianesimo.

Il patto è chiaro: i movimenti locali offrono basi operative e radicamento presso la popolazione locale; i gruppi islamici, soprattutto quelli dell'Aqmi (Al Qaeda per il Maghreb islamico), contribuiscono con la loro esperienza nelle tecniche del terrorismo.

E' successo in Somalia, dove la politica dei clan si è saldata con l'islamismo fino a produrre gli shaabab, i "giovani" musulmani radicali che bloccano qualsiasi tentativo di soluzione pacifica e istituzionale alla pluridecennale crisi del Paese. E' successo in Nigeria, dove i guerriglieri dell'Aqmi, spostandosi verso Sud per sfuggire alla reazione delle autorità algerine, hanno incontrato i miliziani di Boko Haram, i cui attentati contro i cristiani hanno infatti acquisito ulteriore crudele efficacia. E' successo nel Mali, dove la lotta dei tuareg per l'indipendenza avrebbe avuto successo, se non fosse intervenuta l'operazione militare della Francia, grazie anche al contributo delle formazioni dell'estremismo islamico armato, irrobustite dai maliani rientrati dalla Libia dopo il crollo di Gheddafi.

Nel Mali, come già prima in Somalia, si stava realizzando il peggiore degli scenari: il radicalismo islamico non solo si era alleato alla lotta dei tuareg ma l'aveva pian piano subornata, piegandola ai propri fini.

Peter Kodwo Appiah Turkson
64 anni, ghanese

È nato a Nsuta Wassaw (nel Ghana occidentale). Ordinato sacerdote il 20 luglio 1975 nella cattedrale St. Francis De Sales, a Cape Coast, 18 anni dopo, il 27 marzo 1993, nella stessa chiesa è stato fatto vescovo.

Papa Giovanni Paolo II lo ha creato cardinale nel 2003. Per diversi anni ha presieduto la Conferenza Episcopale del Ghana ed è stato rettore dell’Università Cattolica del Paese africano.

Nell’ultimo decennio è stato membro di diverse commissioni e consigli pontifici, fino a quando nel 2009 Benedetto XVI lo ha nominato presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace.

Parla sei lingue: inglese, francese, italiano, tedesco, ebraico, oltre a quella materna, la lingua fante.


John Olorunfemi Onaiyekan
69 anni, nigeriano

Nato a Kabba, 300 chilometri a Sud-Ovest della capitale federale Abuja, viene ordinato sacerdote il 3 agosto 1969. Giovanni Paolo II lo nomina vescovo di Tunusuda (e ausiliare di Ilorin) nel gennaio 1983.

Sette anni dopo diventa vescovo coadiutore di Abuja, e nel settembre 1992 pastore titolare della diocesi. Nel 1994, a seguito dell'elevazione della diocesi al rango di arcidiocesi metropolitana, diventa primo arcivescovo metropolita della stessa capitale nigeriana.

Dal 2000 al 2006 è presidente della Conferenza episcopale nigeriana, mentre dal 2003 al 2009 guida la Conferenza episcopale della regione ovest dell'Africa anglofona. Per cinque anni, fino al 2007, è anche presidente del Simposio delle conferenze episcopali di Africa e Madagascar.

Benedetto XVI lo ha elevato a cardinale nel novembre dello scorso anno.


Laurent Monsengwo Pasinya
73 anni, congolese

È nato a Mongobele (provincia di Bandundu) nella Repubblica Democratica del Congo.Ordinato sacerdote a Roma il 21 dicembre 1963, è il primo africano ad aver conseguito la laurea in scienze bibliche.

Nel maggio del 1980 è stato nominato vescovo da Giovanni Paolo II. Un anno dopo, il 7 aprile 1981, è divenuto ausiliare di Kisangani e sette anni dopo arcivescovo della stessa diocesi. Un servizio che ha svolto per diciannove anni.

È stato più volte presidente della Conferenza episcopale congolese, e tra il 1997 e il 2003 ha guidato il Simposio delle Conferenze episcopali dell'Africa e del Madagascar (Secam).

È stato anche vicepresidente (1999-2007) e poi presidente (2007-2009) di Pax Christi international. Nel 2008, al Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio, è stato il primo africano a essere segretario speciale.

Il 6 dicembre 2007 Benedetto XVI lo ha nominato arcivescovo di Kinshasa, e tre anni dopo, il 20 novembre 2010, lo ha elevato alla porpora cardinalizia.


Robert Sarah
67 anni, guineiano

È nato a Ourous, distretto di Koundara, nell’arcidiocesi di Conakry. Ordinato sacerdote il 20 luglio 1969 nella cattedrale di Sainte Marie a Conakry, è stato poi inviato a Roma dove ha ottenuto la licenza in teologia alla Pontificia Università Gregoriana e a Gerusalemme (Istituto Biblicum) in Sacra Scrittura.

È stato eletto arcivescovo di Conakry nel 1979 da Giovanni Paolo II (che lo soprannominò «il vescovo bambino» perché era all’epoca il più giovane del mondo (34 anni). È stato presidente della Conferenza episcopale della Guinea e di quella regionale per l'Africa Occidentale francofona (Cerao).

Lo ha fatto cardinale Benedetto XVI nel novembre 2010. Dallo stesso anno è stato anche chiamato a presiedere il Pontificio Consiglio "Cor Unum".

Anthony Olubunmi Okogie
76 anni, nigeriano

Nato a Lagos, si è formato al Collegio dei Padri della Società delle Missioni Africane (Padri Bianchi), ed è stato ordinato sacerdote nel dicembre 1966.

Nel 1971 è nominato vescovo titolare di Mascula e ausiliare della diocesi di Oyo (la cui popolazione è in prevalenza musulmana). Alla morte improvvisa dell'arcivescovo di Lagos John Aggey (13 marzo 1972), gli viene chiesto di tornare a Lagos come ausiliare.

Il 13 aprile 1973 Paolo VI lo nomina arcivescovo: è il primo nigeriano a ricoprire questa carica. Ha svolto un ruolo importante nella “Christian Association of Nigeria”.

Dal 1994 al 2000 è stato presidente della Conferenza dei vescovi cattolici della Nigeria. Giovanni Paolo II l'ha creato cardinale il 21 ottobre 2003.


Gabriel Zubeir Wako
72 anni, sudanese

È nato a Mboro, nel Sud del Paese. Ordinato sacerdote il 21 luglio 1963, appena nove mesi dopo, tutti i missionari sono stati espulsi dal Sudan meridionale, e Wako è divenuto rettore del seminario minore di Wau.

Dal 1968 al 1971 ha studiato teologia pastorale a Roma all'Urbaniana e alla Lateranense. Il 12 dicembre 1974 è stato nominato vescovo di Wau.

Nell’ottobre 1979 è stato nominato coadiutore di Khartoum, assumendone la guida – e la carica di arcivescovo – il 10 ottobre 1981. È stato presidente della Conferenza episcopale del Sudan.

È stato creato cardinale da Giovanni Paolo II nel 2003.


Wilfrid Fox Napier
71 anni, sudafricano

È nato a Swartberg, diocesi di Kokstad. Ordinato sacerdote in Sud Africa, nel luglio del 1970. Imparata la lingua “xhosa” si dedica alla missione finché, nel 1978, è nominato amministratore apostolico di Kokstad.

È stato fatto vescovo della stessa diocesi il 28 febbraio 1981. Dal 1987 al 1994 guidato la Conferenza episcopale del Sud Africa.

Nella transizione dall’apartheid alla democrazia del Paese ha svolto un ruolo da protagonista nelle delicate mediazioni e nei negoziati. Nel frattempo, nel maggio 1992, è stato nominato arcivescovo di Durban. A partire dal 199 è stato anche presidente della Conferenza episcopale di Botswana, Sud Africa e Swaziland.

Giovanni Paolo II lo ha creato cardinale nel febbraio 2001.


Théodore-Adrien Sarr
76 anni, senegalese

Nato a Fadiouth, nella diocesi di Dakar, è stato ordinato sacerdote il 28 maggio 1964. Nel 1970 è divenuto direttore del seminario minore di san Giuseppe di Ngasobil.

Nel 1974 è stato nominato vescovo di Kaolack, primo vescovo africano della diocesi. Il 2 giugno 2000 è stato promosso alla Sede metropolitana di Dakar.

Dal 1987 al 2005 ha guidato la Conferenza episcopale di Sénégal, Mauritania, Capo Verde e Guinea-Bissau per diversi mandati e per due volte ha presieduto la Conferenza episcopale regionale dell’Africa occidentale (Cerao).

Ha presieduto anche la II Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi del 2009. Benedetto XVI lo ha creato Cardinale il 24 novembre 2007.

Polycarp Pengo
68 anni, tanzaniano

È nato in un villaggio della parrocchia di Mwazye, nella diocesi di Sumbawanga. Ordinato sacerdote il 20 giugno 1971, si è laureato in teologia morale a Roma, presso l'Accademia Alfonsiana. Dal 1978 al 1983 è stato il primo rettore del Seminario maggiore di Segerea, in Tanzania.

Giovanni Paolo II lo ha nominato vescovo di Nachingwea nel novembre 1983. Tre anni dopo è stato trasferito nella nuova diocesi di Tunduru-Masasi. E nel gennaio 1990 il Papa lo ha designato arcivescovo coadiutore dell’allora cardinale di Dar-es-Salaam Laurean Rugambwa.

Due anni dopo, con le dimissioni del porporato, ne ha preso la guida divenendo arcivescovo. Giovanni Paolo II lo ha creato cardinale il 21 febbraio 1998.


John Njue
68 anni, kenyano

È nato a Kiriari Village, nel distretto di Embu. Ha studiato filosofia a Roma, alla Pontificia Università Urbaniana, e teologia alla Pontificia Università Lateranense. Il 6 gennaio 1973, è stato ordinato sacerdote da Paolo VI nella basilica di San Pietro.

Tra il 1978 e il 1982 è stato rettore del seminario maggiore di St. Augustine, a Mabanga, e poi del seminario St. Joseph di Nairobi (1985-86).

È stato nominato arcivescovo coadiutore di Nyeri il 23 gennaio 2002. Ha presieduto la Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale kenyana.

Benedetto XVI il 6 ottobre 2007 lo ha nominato arcivescovo di Nairobi e creato cardinale nel Concistoro del 24 novembre 2007.


Antonios Naguib
77 anni, egiziano

È nato a Samalout nell’Eparchia di Minya dei copti ed è stato ordinato sacerdote il 30 ottobre 1960 nella stessa Minya. Ha studiato teologia e sociologia religiosa a Roma, presso il Pontificio Istituto Biblico.

Il 26 luglio 1977 è stato eletto vescovo di Minya dei Copti. Dopo una pausa dovuta a problemi di salute, fra il settembre 2002 e il marzo 2006, è stato eletto – dal sinodo dei Vescovi della Chiesa copta cattolica – patriarca di Alessandria dei Copti.

È stato presidente dell’Assemblea della Gerarchia Cattolica d’Egitto. È stato relatore generale all’assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi, tenutasi in Vaticano dal 10 al 24 ottobre del 2010.

Benedetto XVI lo ha creato cardinale il 20 novembre 2010. Nel gennaio scorso sono state accettate le sue dimissioni per raggiunti limiti di età e il Sinodo ha provveduto a nominare il suo successore. Al Conclave andrà dunque come Patriarca emerito.

(a cura di Luciano Scalettari)

Il suo nome, nel dialetto della sua terra, significa “albero di ferro”. Uomo di un’affabilità rara, latinista raffinatissimo, di intensa vita spirituale e pastorale. Il suo nome è Bernardin Gantin, il cardinale originario del Benin, ex colonia francese, dove convivono cattolici, islamisti e animisti. Gantin, scomparso nel 2008, già prefetto della Congregazione dei vescovi, membro della Commissione cardinalizia dello Ior e decano nel collegio cardinalizio, è stato un grande amico dell'allora prefetto della Congregazione della fede (l’ex Sant’Uffizio), il cardinale Joseph Ratzinger. Può essere considerato uno dei simbli della Chiesa africana. testimone del Concilio, fu indicato tra i "papabili" in due conclavi.  Nel corso del suo pontificato Benedetto XVI si recherà per ben due volte proprio nel Benin, piccola isola felice del continente africano, per pregare sulla sua tomba.

Perché il Benin? Innanzitutto perché il Paese può essere preso come simbolo di un’Africa nuova, siombolo della convivenza religiosa ed etnica. Questo Stato, pur piccolo dal punto di vista geografico, occupa un posto di primo piano nella diffusione del Vangelo nell’Africa occidentale. Il suo Seminario principale è stato un centro di irradiazione dell’evangelizzazione e della pastorale nel Togo, nel Niger, nel Ghana e in Nigeria. E quella di Ouidah, cittadina a 43 chilometri da Cotonou, è la prima Cattedrale della regione. “In Benin – ricordò padre Lombardi – il porporato è considerato un padre della patria, tanto è vero che gli è stato intitolato l’aeroporto internazionale di Cotonou”. Gantin, alla cui tomba il Papa ha reso omaggio, non è l’unica personalità cattolica del Paese africano.

Tra i grandi di ogni tempo viene annoverato anche un altro prelato beninese, l’arcivescovo di Cotonou, Isidore de Souza, presidente della Conferenza nazionale che all’inizio degli anni ’90 traghettò il Paese verso la democrazia. Un assetto che tuttora sussiste e ha dato buoni frutti e che è un altro dei motivi per i quali il Paese è stato scelto per presentare l’esortazione postsinodale su riconciliazione, pace e giustizia. Quell’Africa percorsa da venti di speranza (come le «primavere arabe»), cui tutto il mondo guarda con interesse e partecipazione.

Francesco Anfossi

Da Kinshasa (Repubblica democratica del Congo) - La notizia delle dimissioni di Papa Benedetto ha parecchio scosso i cattolici congolesi. Legati per cultura al riferimento all'anziano della tribù, quale portatore di una tradizione inalterabile, pensare a un "capo" che viene meno al suo ruolo ha dato loro fatto molto su cui riflettere. Ovvio che un pensiero più pacato ha in seguito permesso di cogliere il senso umano e evangelico del gesto del Papa.

Fare pronostici sul prossimo successore di Pietro non appassiona eccessivamente le parrocchie e le comunità ecclesiali di base. Il ritmo delle attività scorre intenso in questo Anno della fede: catechesi, incontri, celebrazioni, in un ambiente dove gli spostamenti e le attività non sono certo aiutati dalle infrastrutture, non c’è molto spazio per immaginare questo o quell'altro cardinale prendere la guida della Chiesa universale. Ma ciò non significa disinteresse, tutt'altro.

Tutti i cattolici guardano a Roma come centro di unità che qualifica il cammino delle proprie comunità, a differenza della dispersione che caratterizza tante sette o altri centri di culto di ispirazione cristiana. Qui in Africa, come altrove e forse più che altrove, si sente l'esigenza di un pastore che - come Benedetto - aiuti la Chiesa a crescere in una fede salda nelle sue radici, attenta agli ultimi e aperta ai cambiamenti che l'evoluzione veloce del progresso richiede. Ci sono stati grandi vescovi africani, uno fra tutti il cardinal Albert Malula, che nel passato hanno aiutato l'Africa a inculturare il messaggio evangelico nello stile di vita e nella liturgia. Ancora oggi personalità eminenti come il cardinale Laurent Monsengwo, arcivescovo di Kinshasa, mettono a rischio la propria incolumità per predicare la giustizia e la pace.

Forse non sarà ancora l'ora per un papa "nero", ma sicuramente è tempo per ascoltare con grande attenzione una Chiesa viva e feconda, giovane e piena di risorse. Il clero e i religiosi africani hanno ormai esperienza e preparazione per continuare l’opera dei missionari e diventare essi stessi nuovi evangelizzatori nei paesi dove la carenza di vocazioni mette a repentaglio l’esistenza delle comunità. Dall’Africa guardiamo al Conclave come a un’esperienza dello Spirito che rigenererà tutta la Chiesa, permettendo anche qui di superare quei problemi legati al suo aspetto di compromissione con il “troppo umano” che limitano un annuncio veramente credibile. L’animo fortemente religioso degli africani saprà cogliere la giusta ispirazione da questo evento. 

Roberto Ponti
(l'autore è un sacerdote paolino
che opera nella Repubblica democratica del Congo)

Padre Godfrey Msumange, giovane Missionario della Consolata, viene dalla diocesi di Iringa in Tanzania. Figlio della Chiesa africana, che molto ha ricevuto dai missionari, dal 2000 è – a sua volta - missionario in Italia. Attualmente vive e lavora a Torino. «Fra qualche settimana la Chiesa vivrà una delle rare esperienze che possono capitare nella storia, dovuta alle dimissioni di Benedetto XVI: avremo un “ex Papa” e il nuovo Papa», esordisce padre Godfrey.

Il sacerdote africano, però, non ci sta a giocare al toto-Papa: «Da dove verrà il futuro pontefice? Tanti se lo chiedono - ribatte - ma questo è lavoro per lo Spirito Santo ed è per questo che alla Chiesa viene chiesto di pregare». Poi, incalzato sulla possibilità che il nuovo successore di Pietro possa venire dal continente africano, risponde: «È vero che il cattolicesimo in Africa sta crescendo in modo esponenziale. Più del 50 % dei cattolici nel mondo vengono dall’America Latina e dall’Africa. Ben venga, dunque, se il Papa venisse dall’ Africa. Così avremo il quarto papa Africano (dopo Gelasio I, il cui pontificato durò dal 492 al 496) nella storia di cristianesimo. Ma questa è logica umana, quella dello Spirito Santo non segue le statistiche».

Quali attese manifesta, a suo giudizio, la Chiesa africana nei confronti del Papa che verrà? «La Chiesa cattolica è la Chiesa di tutti, con tutte le sue diversità di lingue, nazioni, colori... Mi aspetto quindi che il nuovo Papa abbia uno sguardo a 360 gradi, per affrontare tutte le diverse realtà presenti nella Chiesa, aprire le finestre sul mondo e, sempre di più, passare da una visione eurocentrica a quella policentrica. L’Occidente ha certo il suo impatto nel mondo, ma non per questo ne è il centro».

Continua padre Godfrey: «Dopo il buon lavoro fatto dal Papa uscente, penso che il nuovo Papa potrà continuare a mettere in atto lo Spirito del Concilio Vaticano II. Mi attendo che il Pontefice che sarà eletto sia una voce profetica, “padre e madre” misericordioso, coraggioso ma fermo anche su alcuni punti dottrinali, in un mondo in continuo cambiamento. Un Papa, una Chiesa a servizio del popolo di Dio che partecipa alle gioie e sofferenze dell’Africa d’oggi».

L’Africa è spesso associata a eventi negativi: guerre, carestie… Eppure dalla Chiesa d’Africa – pensiamo ai due Sinodi continentali del 1994 e del 2009 – sono venuti anche segni di luce... «Ad un continente che ha visto e vissuto tanti segni di speranza, serve comunque continuare ad essere faro dove ci sono le tenebre. Spero che il nuovo Papa continuerà a mettersi in ascolto e in comunione con gli organismi ecclesiali e laici del continente.  Per lunghi anni l’Africa ha sofferto e continua a soffrire senza ragione: la povertà, i nuovi meccanismi di schiavitù moderni, lo sfruttamento delle persone e le materie prime, le violenze sono all’ordine del giorno. Pochi, fuori e dentro il continente, si arricchiscono a scapito della vita dei deboli, degli innocenti. Il secondo Sinodo ha dato dei segnali importanti, ma non basta solo denunciare. È importante andare oltre. L’attuale Papa ha parlato tanto di verità e trasparenza; credo che serva questa medesima chiarezza. Occorrono profezia e coraggio».

Gerolamo Fazzini

È forte il desiderio degli italiani, e in particolare dei credenti del nostro Paese, di vedere sul trono di Pietro un Papa italiano. È quanto emerge da una ricerca condotta dall'Istituto Piepoli: il 36 per cento degli intervistati si augura che il successore di Benedetto XVI sia un connazionale, percentuale che sale al 44 per cento se si restringe l'indagine ai soli cattolici. Il 31 per cento del campione intervistato vorrebbe invece un Papa straniero: europeo il 15 per cento, extra-europeo il 16 per cento.

La speranza degli italiani, e soprattutto dei cattolici, è dunque di avere nuovamente un Papa che provenga dal nostro Paese, dopo Joseph Ratzinger e Karol Wojtyla. L'ultimo Papa italiano è stato Albino Luciani, protagonista di un breve pontificato (dal 26 agosto al 28 settembre del 1978) con il nome di Giovanni Paolo I.

Ma ecco i risultati del sondaggio in dettaglio.



La risposta alla domanda "Lei personalmente si augura venga eletto...", è dunque piuttosto netta. I risultati ricavati da altri quesiti della medesima indagine sottolineano invece come, per gli intervistati, la notizia delle dimissioni di Benedetto XVI non abbia avuto rivali per la sua rilevanza rispetto ad altri eventi degli stessi giorni. Vale la pena, infine, osservare come sia stato percepito dalla gente comune il gesto di Benedetto XVI: per la maggioranza, è un atto di coraggio e di umiltà.

Nota metodologica al sondaggio dell'Istituto Piepoli: il sondaggio è stato eseguito mediante 503 interviste telefoniche CATI a un campione rappresentativo della popolazione nazionale maggiorenne.

 

A cura di Paolo Perazzolo

 
 
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