Alzi la mano chi non ha desiderato un avvocato alla Perry Mason. Ecco appunto. E alla fine, a forza di invocarlo, Perry Mason ci ha rovinati o meglio ha inquinato l’idea di giustizia che ci portiamo dentro
e che spesso inconsciamente usiamo come metro per valutare quella
reale. Come ben descrive con ricchezza di particolari e di voci In nome della Legge, la giustizia nel cinema italiano, edito da poco da Rubettino a cura di Guido Vitiello, non
è soltanto la cronaca nelle sue forme a influenzare la nostra
rappresentazione mentale della giustizia, anche la fiction e la
letteratura hanno fatto la loro parte, a volte con effetti
positivi, altre volte nefasti. E Perry Mason, lo dicono in tanti, su
questo fronte ha fatto danni. Perché la giustizia di Perry Mason non
esiste in natura.
Gian Carlo De Cataldo nel suo In Giustizia gli dedica un ritrattino al vetriolo,
fino a definirlo: «Uno scatenato figlio di buona donna che non ha la
più pallida idea di cosa significhi il rispetto della legge e
dell’etica». Michele Leoni, presidente della seconda
sezione penale del Tribunale di Bologna in un articolo ironico nei toni e
serio negli argomenti lo descrive così: «Mason avvocato ideale,
difensore dei deboli e braccio della giustizia, in realtà era un
personaggio da operetta, maneggione e sbrigativo». E quando
chiediamo a Leoni di spiegarci meglio il perché di una sentenza tanto
severa chiama in causa l’aiutante Drake: «Collabora con Mason, lo aiuta
nelle indagini difensive e quando gli torna utile ottiene quello che
cerca anche menando le mani, non è un esempio edificante per un uomo di
diritto».
Ma, al di là della dubbia deontologia di Mason che
suggerisce l’idea che si possano fare in nome della giustizia con la G
maiuscola cose che la legge non ammette, magari assecondando qualche
istinto forcaiolo, il superavvocato uscito dalla penna di Enle Stanley
Gardner ha influenzato il nostro immaginario sulla giustizia anche in un altro aspetto, meno evidente all’uomo qualunque e forse per questo anche più insidioso: la verosimiglianza.
«Il fatto che Mason difenda solo innocenti», spiega Leoni, «oltreché deontologicamente discutibile perché i diritti di difesa vanno garantiti a tutti, è inverosimile. Nella realtà esistono anche i colpevoli e, a differenza che nella saga di Perry Mason, non confessano mai in aula.
Anche perché nel caso in cui un testimone crollasse in aula fino a
confessare il delitto di cui è imputato un altro – ma basterebbe che
affiorasse un indizio a carico del testimone non imputato -, il nostro ordinamento ci obbligherebbe a sospendere la deposizione per chiamargli l’avvocato».
Mentre in Perry Mason la confessione in diretta è pressoché matematica.
«Col risultato che chi osserva un processo pensando a Perry Mason
chiede alla giustizia il trionfo conclamato della verità reale, mentre
molte volte nel processo si arriva a una verità processuale che anziché
smascherare il colpevole in aula assolve un imputato, perché le prove
raccolte a suo carico non bastano a fugare il ragionevole dubbio sulla
sua colpevolezza».
Sarebbe l’ideale che la verità reale, assoluta, priva di dubbi coincidesse, e sempre, con la verità processuale
– magari senza i metodi sbrigativi di Perry Mason – «Ma una giustizia
così non esiste, in nessun sistema al mondo. Poi certo si potrebbe fare
molto meglio, per accelerare per evitare che troppi processi per reati
comuni finiscano in prescrizione, ma servirebbero risorse e persone. E
all’orizzonte non se ne vedono».