L’Italia suonò, sì. Un’adunata musicale per rompere l’assordante silenzio che ha invaso piazze e strade, per sentirsi sempre vicini, pur rimenando lontani, in tempi di coprifuoco anti-coronavirus. L'appuntamento del flashmob sonoro, lanciato “in sordina” sui social, ma poi cresciuto a suon di adesioni spontanee, era per le ore 18 del 13 marzo, per tutta Italia e in ogni forma eseguibile. E puntuale la musica è partita. “Apriamo le finestre, usciamo in balcone e suoniamo insieme anche se lontani. Rallegriamo le città”, recitava lo slogan del “concerto”. D’altra parte cosa c’è di più contagioso della musica, e cosa unisce di più del canto, anche senza conoscere le note, anche se parli lingue e dialetti differenti? In quella “società perfetta” che è il pentagramma ci sta tutto e ogni segno conta, ha un suo posto e valore, perfino i vuoti, le pause.
Così, prima del tramonto, dai condomini di un’Italia blindata è partito questo abbraccio sonoro che ha unito Sicilia a Valle d’Aosta, come un’immensa hola dai centri storici silenziati delle metropoli fino al più muto dei borghi di provincia, per dire in musica, come fosse il refrain di una canzone: “ci siamo, forza. Possiamo farcela. Andrà tutto bene”. Un coro di voci da tutta la penisola, dagli allievi delle scuole di canto ai giovani rapper, dalle band di strada ai concertisti di professione, e poi tanti, tanti cittadini che hanno aperto balconi e lucernari per far sentire la propria voce, magari afona o stridula, accanto alle altre, per unirsi con le note, per stare insieme sull’aria di qualche melodia conosciuta, per far rimbalzare tra i palazzi strofe di speranza. Un po’ canto apotropaico, un po’ sfogo di troppa tensione tenuta dentro, smorzata, come i colpi di tosse trattenuti sotto le mascherine. E così nei cortili interni, dalle case di ringhiera fin sui tetti, è partito il canto liberatorio. Quartetti, quintetti, fischietti; fiati e sfiatati; contralti, tenori e stonati; xilofoni e megafoni; grancasse e casseruole. Tutto fa musica. "Non importa saper leggere la musica, suonare uno strumento o possederlo; basta anche cantare una canzone o far suonare le pentole di casa, l'importante è farci sentire perché la musica è la migliore medicina per curare l'anima e in questo momento ne abbiamo bisogno”, spiegava una delle pagine facebook che lanciavano l’iniziativa.
Certo, il flashmob non è piaciuto a tutti: qualche musicista s’è opposto, rifiutandosi di “essere il saltimbanco e l’intrattenitore della gente, ma da sempre precario e mal retribuito”. Ci sta anche questa rabbia sorda. Ci sta la voce fuori dal coro. Ma l’Italia suona, comunque, contro il male oscuro. Dal vivo, amplificata o no. Poco importa. Arie musicali contro arie ammorbate. Concerto 21 in Do+ K 467 contro Covid-19. Anche questa è resistenza. Tra le palazzine di zona Sempione s’alza la preghiera in canto di “O mia bella Madunina”, con la tromba del virtuoso Gabriele; gli risponde un clarinetto con “l’inno di Mameli” dal quartiere Niguarda. Una tammuriata con nacchere e pentolame scalda le gambe e i cuori dei condomini sulle terrazze in via Piermarini a Benevento; a mo’ di scacciapensieri parte un “Ma che ce frega, ma che ce importa” dai balconi di una periferia romana; gli risponde una “Macarena” da un finestrone del quartiere multietnico di San Salvario a Torino; e se da un’abitazione di Bologna il piccolo Riccardo si piega sul piano, come Schroeder nei Peanuts, per eseguire Beethoven e il suo “Inno alla gioia” e una giovane cantante lirica intona a cappella un’aria sublime di Purcell, da un poggiolo ai piani alti d’Agrigento fisarmonica e tamburello guidano un corale, beneaugurante “Ciuri ciuri ciuriddi tuttu l’annu”.
Perfino un prete, don Nandino, appollaiato su un tetto di Marghera improvvisa alla chitarra una canzone d’autore. La musica compatta il gregge, avvicina gli ostili, crea comunità, fa ensemble. E la chiesa lo sa bene. Almeno fin dai tempi di San Gregorio. Il sacerdote canta alla meglio una canzone di Fiorella Mannoia: “Resistenza”, i cui versi dicono “Non avere paura di non avere coraggio”. Resistenza, appunto. Quasi fosse come ai tempi dei partigiani. Quasi come “O bella ciao”, un po’ struggente serenata e un po’ canto ardente di battaglia, contro il nuovo virus “invasor”.