Cara Posta del cuore permettimi di sfogarmi! È passato un anno da che lei è morta e io non so più vivere senza di lei. Anzi, mi lamento così tanto che i miei due figli maschi mi stanno alla larga; uno addirittura mi ha detto: «Ma se non facevate altro che litigare!». E purtroppo è vero. Ma questo è il punto: mi sveglio il mattino (le rare notti che dormo) e mi ricordo di quanto l’ho resa insopportabile ai miei occhi. Le dicevo: «Mai che fai una cosa per me!»; lei mi metteva il muso, oppure mi elencava tutte le cose che faceva per me... Cara Posta del cuore, dillo, dillo forte che bisogna trattar bene le mogli per non piangere dopo... ERNESTO
— Ti prendo in parola, caro Ernesto, cerco di dare voce alla tua supplica: meglio trattare bene la moglie quando è in vita che piangerla dopo la morte per averla fatta inutilmente soffrire! Ma non è tutto qui, caro vedovo, e perciò vorrei aiutarti – nel limitatissimo spazio della mia rubrica – a diventare un “vero” vedovo, cioè uno che riscopre (ripeto: scopre di nuovo) il rapporto coniugale come fonte di pace. I tuoi figli ti stanno rimproverando questo “eccesso di lutto” rinfacciandoti le vostre litigate e le vostre incomprensioni. E sbagliano. Tu stai cercando che cosa avrebbe potuto rendere “più buono” il vostro rapporto. Il risultato è che ti autoaccusi: ma non c’è nessun rapporto coniugale, per quanto sano e bello, che appaia perfetto agli occhi di chi resta; è a dire: chi resta si autoaccusa, si colpevolizza, e rischia di rimaner fissato lì.
A questo punto l’altro/l’altra (chi “non c’è più”, si dice come una bestemmia) non ha diritto di parola! Non può dirti: “Guarda che a litigare c’ero anch’io, eravamo in due, anzi ora scopro che non ero proprio un/una santo/a!”. Invece, caro vedovo, la vera vedovanza inizia quando si dialoga con chi ci ha lasciato soli: mio marito lo chiamava “dialogo senza fine” (ho pubblicato le sue poesie in E venni a bussare alla tua porta, ed. Porziuncola) perché – se lo vogliamo – la morte non azzera il dialogo e il coniuge non è scomparso nel nulla, dice la Fede. E così puoi lasciare che il tuo vero lutto, il tuo vero rammarico di non esservi capiti al tempo giusto, qui in questa esperienza terrena, si tramuti in una sorta di canto: “Ti ricordi?”. Ti ricordi quando quella volta non ti ho capito... quando tu mi hai messo il muso... e puoi sorridere! C’è un’eternità che ci aspetta, caro Ernesto, e non smetteremo mai di sorridere per i nostri (miei e suoi) errori e di testimoniare ai figli e alla terza generazione che la morte non ha l’ultima parola