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domenica 15 settembre 2024
 
lo Schindler turco
 

E morto Raphael Esrail, lo Schindler turco

31/01/2022  Presidente dell'Unione dei deportati, operò in Francia dove salvò molti ebrei. Venne scoperto e internato nel lager. In un libro la storia della sua deportazione e dell'amore per una ragazza che gli diede la forza per salvarsi. La nostra intervista del 2019

Considerato lo Schindler Turco, Raphael Esrail, è morto pocho giorni fa a 97 anni. Operò in Francia dove salvò molti ebrei dalla deportazione. Ne dà notizia la stampa turca ricordando che Esrail nacque nel 1925 a Manisa, località della Turchia sul mare Egeo, da una famiglia sefardita che successivamente emigrò in Francia dove passò tutta la sua vita. Nel 1943 prese parte alla resistenza contro i nazisti e riuscì a salvare molti ebrei dai lager producendo falsi documenti di identificazione in modo tale che non fossero mandati nei campi di concentramento. Nel 1944 lo stesso Esrail non riuscì però a sfuggire ai nazisti, fu arrestato e internato a Auschwitz.
Tentò la fuga senza successo ma riuscì a sopravvivere fino alla conclusione della guerra e successivamente diventò presidente dell'Unione dei deportati di Auschwitz in Francia.

In un libro la storia della sua deportazione e dell'amore per la sua futura moglie che gli diede la forza di salvarsi.

Ecco la nostra intervista del 2019

 

La  "speranza  di  un  bacio" nel titolo di un romanzo fa pensare a una storia di consolazione e amore. Il libro di Raphaël Esrail (edito da tre60) rivela una persona capace di trasmettere questi sentimenti, forse senza saperlo. Ma lo sfondo di quanto racconta e il più tragico della nostra storia. La trama si potrebbe riassumere facil-mente. Un giovane vede una ragazza, se ne innamora, le chiede un bacio, lei risponde: «Non adesso». Potrà darglielo un anno e mezzo dopo. Prima di quel bacio ci sarà il viaggio verso Au­schwitz, le camere a gas, la marcia della morte e la scomparsa di persone care. Con una voce chiara che tradisce i suoi 91 anni Raphaël ci racconta come ha conosciuto la moglie Liliane Badour, la ragazza di 19 anni che gli ha dato la forza di sopravvivere ai lager.

Dove ha visto Liliane la prima volta?

«A Drancy, un campo d'internamento vicino a Parigi e punto di partenza per le deportazioni dalla Francia verso Auschwitz, dove ero arrivato diciottenne il 26 gennaio del 1944, arrestato perché procuravo documenti falsi alle persone per aiutarle a fuggire in Svizzera. Me la presentarono i suoi fratelli Henri di 17 anni e René di 13. Lei era molto affascinante e per me è stato un vero colpo di fulmine».

Che ricordo ha dei suoi fratelli?

«Il più giovane portava la divisa scout. Anche io lo ero, e mi sono av-vicinato spontaneamente a loro. Ero stupito: appartenevano a un'associazione cattolica, gli Scout di Francia, ma erano lì con prigionieri ebrei e della Resistenza. Mi raccontarono che erano orfani di entrambi i genitori. Vivevano a Biarritz con i nonni materni di lontane origini ebraiche ma erano di religione cattolica. Ho poi scoperto che il nonno, quando sono stati arrestati, ha fatto di tutto per far avere i certificati di battesimo alla polizia. Inutilmente. Quando i documenti giunsero a Dran­cy il 4 febbraio del 1944 i suoi tre nipoti erano da 24 ore rinchiusi nei vagoni in viaggio verso Auschwitz».

 

Poi, finita la guerra, di nuovo l'incontro con Liliane a Biarritz...

«Avevo saputo che era sopravvissuta, ma rivedere di persona la ragazza che era stata a lungo nei miei sogni è stata una gioia immensa. In realtà non conoscevo i suoi sentimenti. Lei ha voluto che l'accompagnassi a Lourdes. Il nostro è stato un amore che si è costruito nel tempo. Diventando più for­te e più reale durante la nostra vita».

Il dolore di aver perso i fratelli per Liliane è stata una ferita inguaribile?

«I due ragazzi sono stati smistati e inviati alle camere a gas appena giunti a Birkenau. Liliane ne ha sofferto tutta la sua vita. Si è sentita sempre responsabile della loro morte».

I primi anni, finita la guerra, sono stati comunque molto duri?

«C'era la felicità di aver ritrovato Liliane, ma era difficile ricominciare a vivere. Avevo problemi economici, studiavo ingegneria e faticavo a mantenermi. Ma soprattutto non amavo più gli uomini. Rispettavo le persone ma non provavo nessun sentimento di vicinanza. Ho compreso allora che il valore di un essere umano lo si può capire solamente quando è spogliato di tutto. Per anni ho giudicato le persone secondo il “metro dei lager”: come si sarebbero comportate in un campo di concentramento?».

Perché lei e Liliane non avete parlato della deportazione?

«Volevamo proteggere le persone care da tanta miseria. Oggi mia ­figlia me lo rimprovera. Ma ai tempi pensavo: “Perché raccontare l’orrore?” Non volevo trasmettere infelicità».

La memoria è diventata poi un dovere?

«Lo è diventata per vari motivi: per ricordare le persone scomparse; per prevenire, spiegando ai giovani quanto male può fare un uomo a un altro uomo, ma soprattutto per descrivere quel capovolgimento, impossibile da accettare, di tutti i valori umani che noi conosciamo. I tedeschi sono stati capaci di catturare e imprigionare uomini donne, bambini, di condurli nelle camere a gas, di utilizzarli come schiavi o animali per gli esperimenti scienti­fici».

Chi l’ha spinta a raccontare?

«Mia nipote Aurélie mi ha convinto a scrivere il libro. La forza per raccontare l’abbiamo ritrovata io e Liliane tra il ʼ70 e gli ʼ80, quando hanno iniziato a diffondersi le ideologie negazioniste. Non si poteva più tacere».

Il suo totem scout era “toporagno gioviale”. È ancora quella persona?

«È passato tanto tempo (ride e si fa silenzioso, ndr). Lavoro con i giovani. Li capisco e mi capiscono. Ma sì… penso di essere una persona gioviale come è sempre stato il mio carattere».

 
 
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