Cara professoressa, la settimana scorsa fuori da scuola i genitori erano arrabbiati, tanto per cambiare, con un insegnante che secondo loro risponde male ai nostri figli. Io so quanto sono rompiscatole i ragazzi e non mi sento di difenderli in tutto e per tutto. Poi una mamma ha detto: «Dovremmo fare come è successo in Sicilia, andare a menarlo…». Sono rimasta sconvolta. Che mancanza di rispetto! Ed è sempre peggio.
MARTA
— Cara Marta, la vicenda accaduta in Sicilia, alla quale rimandi, si presta a molte riflessioni. Intanto i fatti, così come sono stati raccontati dal diretto interessato: in una scuola media di Avola, in provincia di Siracusa, un docente di educazione fisica di 60 anni con pluriennale esperienza chiede a un allievo dodicenne di seconda media di chiudere la finestra prima di andare in palestra per fare lezione. Il ragazzo si rifiuta, reagisce in malo modo. Seguono rimproveri da una parte, una chiamata a casa dall’altra. Mezz’ora dopo arrivano in tutta fretta padre e madre, lei con il pigiama sotto l’impermeabile, e colpiscono il malcapitato professore con calci e pugni, davanti ad alunni e colleghi esterrefatti: la vittima non reagisce, porta a casa lividi, una costola rotta e la voglia di non mettere più piede in classe, dichiara. Occhiali a pezzi anche per il docente che lo ha difeso. La coppia di coniugi guadagna una denuncia per lesioni e interruzione di pubblico servizio. Che cosa hanno portato invece a casa i ragazzi e i colleghi presenti all’assalto, che cosa resta nella mente dei genitori italiani venuti a conoscenza dell’accaduto? Tutti sconvolti, certo. Stupiti, amareggiati. Ma serpeggia anche altro: «Dovremmo fare come è successo in Sicilia, andare a menarlo», scrivi. Si comprende allora quanto sia emblematico un episodio del genere: del poco valore dato oggi alle istituzioni pubbliche, allo Stato. Della fragilità estrema di ragazzi e genitori incapaci di gestire una sconfitta o un rimprovero. Di una scuola che raccoglie il frutto di pluriennali campagne denigratorie nutrite di maestri fannulloni e vacanze bimestrali. Resta un cumulo di cocci da incollare. E ognuno di noi, che crede nel valore educativo della scuola, è chiamato a farlo, dalla cattedra, con impegno quotidiano. Anche chi è stato picchiato, denigrato e in classe dice di non volerci più mettere piede. Tutti i giorni percorro l’atrio del mio istituto sotto lo sguardo attento del busto di Goffredo Mameli, morto a vent’anni per un ideale. Ha la barba di bronzo consumata dalle carezze dei ragazzi che la toccano perché si dice porti bene, perché si sentono incoraggiati. Era giovane, ha contribuito a costruire la nostra patria. «Mai arrendersi se si crede in qualcosa», dico a chi sta tra i banchi. Ed è la risposta migliore che può dare anche chi sta dietro alla cattedra: continuare a rimanerci, con coraggio.