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domenica 23 marzo 2025
 
 

Religiosità popolare, quasi un'elite

20/10/2012  Un’indagine sui partecipanti al pellegrinaggio antoniano del 2010 smentisce tutti i luoghi comuni sulla devozione popolare, che non è roba da vecchi ignoranti.

Ha ancora senso oggi la definizione di “religione popolare”? No, se si immagina per devoto qualcuno di poco conto, culturalmente modesto, spesso vecchio e superato dai tempi. A far piazza pulita di molti pregiudizi e luoghi comuni sull’identità di chi si avvicina al sacro attraverso le forme tradizionali della devozione e della cosiddetta “religiosità popolare” è un’indagine realizzata dall’Osret (Osservatorio socio-religioso triveneto) in occasione dell’ostensione straordinaria del corpo di Sant’Antonio nel 2010 a Padova, e presentata al convegno “Religiosità popolare nella società post-secolare” che si chiude oggi nel capoluogo veneto.



Dai 2.707 questionari raccolti tra gli oltre duecentomila pellegrini che due anni fa, in soli cinque giorni, sfilarono davanti alle spoglie del Santo, appare, infatti, un identikit sorprendente. A partire dall’età: quasi due pellegrini su tre sono compresi tra i 30 e i 59 anni, cioè, sono più giovani e più attivi professionalmente rispetto ai cattolici praticanti. Rispetto alla cultura, poi, sono decisamente più, e non meno istruiti, della popolazione italiana nel suo complesso, nelle rispettive classi d’età (più 14-15 punti percentuali di laureati e diplomati), e dei cattolici praticanti (più 16-22 punti percentuali). 


Rispetto al sesso non esistono, invece, differenze di rilievo rispetto alla percentuale di chi pratica regolarmente (62% donne). “Già a una prima analisi, perciò, se collocassimo i tre gruppi (popolazione italiana, cattolici praticanti e pellegrini antoniani) su uno stesso asse, in base al tasso di popolarità, i meno popolari risulterebbero, sociologicamente parlando, proprio questi ultimi”, afferma il sociologo Alessandro Castegnaro, direttore dell’Osret.


Per nulla scontato è anche il risultato riguardante le motivazioni che hanno spinto i pellegrini a recarsi al “Santo”: solo una minoranza inferiore al 15% dice di essere andato perché sospinto da un problema o per chiedere una “grazia” particolare. Metà dei pellegrini volevano manifestare “un legame”, con Antonio, per “devozione” (23%) o per “riconoscenza” (26,5%). “La nuova devozione antoniana , dunque, sembra lontana dall’immagine di un soggetto che desidera un intervento magico, tipica espressione della religiosità popolare”, commenta Alessandro Castegnaro, curatore assieme a Ugo Sartorio del volume “Toccare il divino” (Edizioni Messaggero Padova), che riassume la ricerca. 


Rispetto alle convinzioni religiose spicca, inoltre, la quota molto elevata tra i pellegrini di chi sostiene di credere senza incertezze nella risurrezione (83%, contro il 30% della popolazione e il 58% dei praticanti assidui). I risultati della ricerca, la prima in Italia sul tema, sono rilevanti se si considera che il 16% degli italiani nel 2011 hanno partecipato almeno a un pellegrinaggio, e scardina l’idea che la religiosità popolare sia una nicchia residuale e poco significativa, del credere. Di più: mette in discussione il senso stesso e l’utilità dell’aggettivo ‘popolare’. “Per ‘religione popolare’ si dovrà intendere una delle tante forme della pluralizzazione del credere, che scompagina la vecchia distinzione tra popolo ed élite, perché ne è trasversale”, conclude il sociologo. “Una istanza religiosa che per ora non è intercettata dall’istituzione ‘Chiesa’ e che non lo sarà facilmente in futuro”.

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