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lunedì 07 ottobre 2024
 
 

Ebola, Sierra Leone di nuovo nell’incubo

31/01/2016  Poche ore dopo l’annuncio dell’Oms della fine di ebola è stato individuato un nuovo caso, e un ulteriore contagio pochi giorni dopo. L’allerta è ritornata al massimo.

La mappa dei nuovi casi. In copertina: controlli della temperatura per individuare eventuali nuovi contagiati (le foto sono di Enrico Berti).
La mappa dei nuovi casi. In copertina: controlli della temperatura per individuare eventuali nuovi contagiati (le foto sono di Enrico Berti).

La Sierra Leone non è più “ebola free”. È ripiombata nell’incubo del virus che dal dicembre 2013, dopo febbre, vomito, disturbi intestinali con forte disidratazione ed emorragie interne, ha ucciso 11.315 persone e ne ha contagiate più di 28 mila, la maggior parte in Sierra Leone, Guinea e Liberia. L’ultimo decesso, una studentessa di 22 anni, è appunto del 12 gennaio. Prima di morire, la ragazza ha viaggiato dal distretto di Kambia, al confine con la Guinea, fino a quello di Tonkolili, dove è stata sepolta senza seguire le procedure di sicurezza.

La tragica notizia è sembrata quasi una beffa del destino, poiché è arrivata poche ore dopo l’annuncio da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che tutta l’Africa occidentale era libera da ebola. Informazione evidentemente da correggere.

Il virus è considerato eliminato da un Paese quando passano 42 giorni (il doppio del periodo di incubazione) dall’ultimo caso registrato. Proprio in Sierra Leone, dopo 3.955 morti, il 7 novembre era scattata la festa nazionale perché dichiarata “ebola free”. Per celebrare la notizia, tutti si erano vestiti di giallo, mentre nella settimana precedente le compagnie telefoniche avevano inviato ogni giorno un sms con il conto alla rovescia: “-5”, -4, -3”. Per l’ultimo respiro di sollievo, si aspettava il 5 febbraio quando, passati ulteriori 90 giorni, anche le misure di sorveglianza sarebbero state sospese.


Purtroppo il nuovo caso ha fatto riemergere l’incubo. Secondo Matteo Bottecchia, trentunenne di Vittorio Veneto (TV) che dalla capitale Freetown coordina le attività in Sierra Leone del Cuamm-Medici per l’Africa, «la macchina di risposta sta funzionando abbastanza». La situazione però è molto delicata: prima di morire, la studentessa colpita dal virus è entrata in contatto con 256 persone, di cui 42 sono stimate ad alto rischio dall’Oms, e non tutte sono state rintracciate. Il 21 gennaio, una di loro è stata dichiarata il secondo caso di contagio (per ora non ce ne sono altri certificati) ed è ricoverata nella struttura di Freetown per malati di ebola, rimasta aperta, insieme a un’altra nell’est, per fronteggiare eventuali nuovi focolai.

Intanto si stanno predisponendo nuove strutture nel Paese: «A differenza dell’emergenza del 2014 e 2015», spiega Bottecchia, «è la giusta intuizione di creare piccoli centri di trattamento nei singoli distretti, in modo da lasciare i malati vicino alle loro famiglie, senza trasportarli nella capitale. Si vuole così guadagnare la fiducia e la collaborazione delle comunità locali. Per lo stesso motivo, le nuove strutture sono pensate con le dovute misure di sicurezza, ma senza recinzioni che impediscano di vedere cosa accade all’interno».

Qualche tensione c’è già stata. Il 26 gennaio violenti scontri a Barmoi Luma, nel distretto settentrionale del Kambia, hanno provocato tre feriti tra i giovani che manifestavano contro la chiusura dei mercati, decisa dalle autorità per prevenire il contagio, e la locale stazione di polizia è stata data alle fiamme. Su questa zona, una delle due dove ha vissuto la studentessa prima di morire, si concentrano le principali preoccupazioni sul rischio di contagio.


«Negli ultimi tre mesi», ammette il cooperante italiano, «le prassi igieniche di prevenzione nella vita quotidiana si sono un po’ allentate. All’ingresso degli uffici pubblici continuano a esserci i bidoni di acqua e il sapone, ma il lavaggio delle mani non è più così sistematico». Proprio al mancato rispetto delle procedure di sicurezza sarebbe da ricondurre il contagio del secondo caso: la donna, una parente della prima vittima, avrebbe contratto il virus partecipando al lavaggio rituale del corpo prima della sepoltura. In Sierra Leone, infatti, il rapporto con il defunto è, come spesso in Africa, un rapporto fisico: lo si tocca, lo si espone, lo si lava. È così che ebola ha attecchito e svolto il suo lavoro di morte due anni fa.

A seguito del caso in Sierra Leona, l’allerta è scattata anche nei due Paesi vicini che da poco sono usciti dall’incubo dell’epidemia (ci sono stati anche 8 morti in Nigeria e 6 in Mali). La Liberia, dopo 4.809 morti, è già stata dichiarata libera da ebola tre volte: a maggio 2015 e successivamente nel settembre, ma da allora c’erano stati altri isolati focolai della malattia. L’ultimo annuncio è del 14 gennaio, insieme a quello dell’Oms di “ebola free” per tutta l’Africa occidentale (poche ore prima della scoperta della causa della morte della studentessa sierraleonese). La Guinea invece, che ha avuto 2.536 vittime, è stata dichiarata libera dal virus lo scorso 29 dicembre. 


«In questi giorni ci si renderà conto della reale dimensione del nuovo focolaio», dice Bottecchia da Freetown. Accanto all’emergenza, comunque, è necessario far fronte alle conseguenze di due anni di epidemia devastante, che hanno pesantemente colpito il sistema sanitario, uccidendo medici e infermieri. Insieme ad altri partner, l’intervento del Cuamm, i cui cooperanti non hanno lasciato il Paese anche quando il rischio della vita era alto, ha permesso all’inizio dell’anno scorso di riaprire l’ospedale San Giovanni di Dio nella città di Lunsar, che conta 151 posti letto ed è il riferimento per mezzo milione di persone della zona. Il precedente direttore, il missionario spagnolo don Manuel Garcia Viejo, era stato ucciso dal virus nel settembre 2014.

Se prima di ebola la Sierra Leone era già il Paese del mondo dove per una donna era più pericoloso partorire, ora la situazione è ulteriormente peggiorata: la mortalità materna alla nascita era di 1.100 su 100 mila parti nel 2014, è stata di 1.360 nel 2015 (in Italia è di 4). Spiega Bottecchia: «Con l’epidemia le madri hanno partorito di più in casa, fatto che ha innalzato la mortalità». È uno dei temi su cui lavora il Cuamm, in particolare nel distretto di Pujehun, il primo della Sierra Leone a essere dichiarato “ebola free”, e a breve, grazie a un nuovo progetto, nell’ospedale Princess Christian Maternity della capitale.


 
 
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