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martedì 06 giugno 2023
 
intervista
 

Giorgio Marengo, il più giovane dei cardinali creati da papa Francesco, si racconta

29/08/2022  Da quasi vent’anni è impegnato a portare il Vangelo in Mongolia, ora il Papa lo ha nominato vescovo di quel piccolo gregge che vive nelle steppe. «Avevo 29 anni quando siamo arrivati a Ulan Bator, la capitale, ed è  stato come entrare in un altro mondo»

Giuseppe Allamano, sacerdote torinese di grande spessore umano e spirituale, dichiarato beato nel 1990, ottantanove anni prima aveva dato corpo a una coraggiosa intuizione fondando la congregazione dei  Missionari e delle Missionarie della Consolata. Ci sono decine di suoi scritti che ne raccontano la genesi  e ne seguono gli sviluppi, ma c’è una sua frase tra le tante che qui vale la pena sottolineare: «Non  dobbiamo semplicemente fare il bene: dobbiamo farlo con diligenza e nel miglior modo possibile. La  pazienza va seminata dappertutto». Nel 1901 in Italia circolavano 937 auto, ogni viaggio era un’avventura e  la missione in terre lontane una vera e propria sfi†da ai limiti delle capacità umane. È trascorso ben più  di un secolo da allora, ogni famiglia ha un paio di automobili e il motore a  scoppio sta per andare  fi†nalmente in soffiŠtta. Il villaggio è globale, i viaggi non fanno più paura, e nessun posto è lontano. Quasi nessuno...

Ne sa qualcosa monsignor Giorgio Marengo, che dallo scorso 8 agosto è vescovo di una terra ancora lontanissima: la Mongolia. Classe 1974, cuneese di nascita e torinese d’adozione, padre  Marengo ha sempre avuto la terra dei santi sociali attorno a sé. Fino a quando, diventato missionario della  Consolata e sacerdote, nel 2003 è stato mandato in Mongolia dove da alcuni anni era parroco a  Arvajheer, 8.575 chilometri a est di Torino. Google Maps dice che, in auto, servirebbero 103 ore per  arrivarci. Ma anche con l’aereo non è una passeggiata. La Mongolia è un Paese stretto tra Russia e Cina,  è il diciannovesimo stato più esteso del mondo, ma ha una popolazione di appena 3 milioni di abitanti,  qualcosa in meno dell’area metropolitana di Milano. D’inverno, un inverno lungo, la temperatura scende a  –40 gradi. I cristiani sono una piccola minoranza e i cattolici una minoranza della minoranza. Sono 1.300,  praticamente due Boeing 747 pieni a tappo.

«Avevo 29 anni quando siamo arrivati a Ulan Bator, la capitale, ed è  stato come entrare in un altro mondo», ricorda monsignor Marengo, che ci ha accolto in uno dei salottini  al pian terreno della sede storica dei Missionari e Missionarie della Consolata, in corso Ferrucci 14, a  Torino, qualche giorno dopo la sua ordinazione vescovile avvenuta a Torino e non in Mongolia a causa  dell’emergenza sanitaria. «Eravamo in cinque, tre padri e due suore, di tre Paesi diversi: Argentina,  Colombia e Italia. Vivevamo in due appartamenti in un grosso condominio. Sì, è stata un’avventura,  meriterebbe un libro. Assorbivamo tutto come spugne, non parlavamo una parola di mongolo, nei negozi e  con i vicini ci esprimevamo a gesti. Anche comunicare con l’Italia era un’impresa, internet era poco più  che un’ipotesi. Per i primi tre anni siamo più o meno stati tagliati fuori dal resto del mondo». Il villaggio è  meno globale di quello che sembra.

La missione in Mongolia era iniziata undici anni prima dell’arrivo di  padre Giorgio, e nel 2006 quando il posto, la gente e la lingua hanno iniziato a essere più familiari  («usiamo il cirillico – l’alfabeto russo – per scrivere, ma la lingua è del ceppo uraloaltaico, qualche parentela con il giapponese e il coreano, nulla a che vedere con il cinese»), sono iniziati i viaggi di  esplorazione per trovare il luogo nel quale impiantare la missione. La scelta è caduta su Arvajheer, 35 mila  abitanti, 400 chilometri a sudovest della capitale. «Abbiamo ricominciato di nuovo da zero. Un po’ vai  in crisi perché le condizioni ambientali e climatiche sono un ostacolo vero per la socialità, i ritmi di  lavoro, la voglia di progettare. Le attività frenetiche non puoi nemmeno pensarle, viceversa conta molto la  relazione».

 La relazione, la capacità di stare in un posto e testimoniare. E  aspettare. «I primi Battesimi sono arrivati nel 2010. Sei donne, poi altre sei e dopo i mariti, i cugini. Si  sono avvicinati a noi e non sappiamo perché. Questi sono davvero semplicemente i frutti dello Spirito  Santo e della preghiera, non c’è altra possibile spiegazione». La Mongolia cattolica poggia su 8  parrocchie, 5 di queste nella capitale. Poco, pochissimo, in un Paese immenso, a forte maggioranza  buddhista e poco abituato a relazionarsi con le minoranze.

«Essere vescovo di una piccola comunità  come quella che mi è stata aŠdata signifi‹ca prima di tutto accompagnare queste persone nel cammino. Ho il  compito di aiutarle a stare in piedi nella fede, perché è vero, i cattolici sono delle mosche bianche». E non è facile essere delle mosche bianche. Scegliere il Battesimo è un gesto  consapevolmente coraggioso in un luogo dove la Chiesa è presente solo da 28 anni. «Ma proprio per  questo motivo», sottolinea il neovescovo, «c’è un desiderio profondo e genuino di volere crescere nella fede, di fare propria la tradizione». Sono trascorsi 120 anni dalla fondazione della congregazione dei  Missionari della Consolata, nulla è paragonabile ad allora, ma esiste un ‹ filo che arriva fi‹no a noi, che parte  dal beato Allamano e arriva in Mongolia. «C’è un libro che mi ha segnato profondamente come  religioso e come missionario, si intitola Diario di un uomo felice, di padre Mario Borzaga, il missionario Oblato di Maria Immacolata, proclamato beato nel 2016, che fu ucciso dai guerriglieri a 27 anni in Laos  nel 1960 mentre con un giovane catechista si stava recando a visitare alcuni villaggi. L’ho conosciuto e  apprezzato come pochi quel libro, e la sua storia di martirio, il fatto stesso che di lui non sia mai stato trovato il corpo, la dicono lunga su quanto la vita missionaria sia una grande espressione di  comunione con Dio. E il tempo non può certo scalfi‹rla».

 

 

 

 
 
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