Di Ennio Morricone, scomparso a Roma a 91 anni, tutti ricordano il suo carattere spigoloso, di cui anch’io sono stato vittima. Ricordo come fosse ora un’intervista in cui quando gli dissi che per me poteva andar bene così lui rispose: «Benissimo. Scusi se sembro un po’ annoiato, ma il fatto è che in questi giorni mi chiamano tutti per chiedermi sempre le stesse cose». Naturalmente aveva ragione, eppure in quella chiacchierata era stato incredibilmente generoso di ricordi e riflessioni.
Mi raccontò i due segreti della sua longevità: «Faccio tutti i giorni ginnastica e mi piace camminare velocemente. E poi gioco a scacchi. Prima lo facevo con gli amici. Da quando ho scoperto il computer, gioco da solo: è molto più comodo». Non amava la vita mondana: «Mi piace stare a casa, con mia moglie. Quando devo andare in studio di registrazione mi dispiace». E proprio alla moglie Maria, sposata nel 1956, ha dedicato le parole più struggenti del necrologio che si è scritto da sé: «A lei rinnovo l'amore straordinario che ci ha tenuto insieme e che mi dispiace abbandonare. A Lei il più doloroso addio».
Ha vinto due Oscar, uno per la carriera e uno per la colonna sonora di The Hateful Eight di Quentin Tarantino, ma la musica da film forse più bella che ha composto, quella per Mission, non fu premiata dall’Academy nel 1986. Lui mi confessò che quella volta un po’ ci rimase male: «Ero sicuro di vincere e al momento della premiazione tutta la sala protestò in segno di solidarietà verso di me. Ma quella delusione mi è servita per sopportare meglio le successive».
Abbiamo parlato anche del suo metodo di lavoro. Quando un regista pensava a lui per la colonna sonora di un suo nuovo film andava a trovarlo a casa. Se accettava, iniziava a comporre, mai però al pianoforte: «Solo i dilettanti fanno così. Io scrivo alla mia scrivania, come tutti i veri musicisti. Al pianoforte vado soltanto in seguito, per controllare quello che ho scritto».
È andata così anche con Sergio Leone. «Venne da me e mi chiese di scrivere la musica di Per un pugno di dollari. Accettai con entusiasmo perché in quel periodo stavo cercando lavoro».
Tra i due si formò subito un legame davvero formidabile: «Sergio mi dava dei consigli, ma poi mi lasciava totale libertà». Nacquero così invenzioni musicali che sono rimaste indelebili nella memoria collettiva: il suono del carillon che scandisce il duello fra Lee Van Cleef e Gian Maria Volonté in Per qualche dollaro in più, o l’urlo del coyote in Il buono, il brutto e il cattivo. «Il carillon c’era già nella sceneggiatura, io non ho inventato niente, mentre per l’urlo del coyote ho incrociato due voci umane maschili stonate fra loro».
Tra i registi con cui gli sarebbe piaciuto lavorare c’è Stanley Kubrick. «Eravamo già d’accordo per Arancia meccanica. Ma io in quel momento ero già impegnato con Leone per Giù la testa e alla fine non se ne fece nulla».
Il successo di una musica per Morricone dipende «dalla sua chiarezza, dalla sua semplicità». Per questo motivo la prima persona che ha ascoltato le sue composizioni è sempre stata sua moglie Maria. «Mi è capitato in passato che alcuni registi abbiano scelto delle musiche meno valide. Così le faccio ascoltare prima a mia moglie, che non ha una competenza musicale specifica. Se piacciono a lei, è più probabile che piacciano anche al pubblico».
Nella sua lunga carriera, Morricone è stato arrangiatore di moltissime canzoni, da In ginocchio da te di Gianni Morandi a Sapore di sale di Gino Paoli, a Quando finisce un amore di Riccardo Cocciante. Con meno frequenza, è stato anche autore. Sua, per esempio, è l’avvolgente melodia di Se telefonando di Mina, su testo di Maurizio Costanzo e Ghigo De Chiara. «Scrivevo canzoni solo su richiesta, quando servivano in un programma tv o in un film. Se telefonando, per esempio, mi fu commissionata dalla Rai».
Ecco, Ennio Morricone era così: un uomo sicuramente consapevole del suo valore e che pure non si esaltava mai, consapevole della caducità di tutte le cose. Un understatement che lo accompagnato fino alla fine, nella scelta dei funerali in forma privata fatta «per una sola ragione: non voglio disturbare».