Ora ha un volto “Capitano Ultimo”, al secolo Sergio De Caprio, nato a Montevarchi, in quel di Arezzo, 63 anni fa. L’uomo che ha catturato il capo dei capi Totò Riina, il più feroce, il più potente dei mafiosi di Cosa Nostra, latitante da decenni, arrestato in una villa di Palermo, il 15 gennaio 1993. Un mito, questo carabiniere scontroso e audace. Controverso, ma pur sempre un mito. Gli hanno dedicato sei film, una serie televisiva e decine di libri. Oggi è un generale in congedo e ha deciso di candidarsi alle europee, mostrandosi a volto scoperto, nel movimento politico del bizzarro sindaco di Taormina Cateno De Luca. In quel gennaio di 31 anni fa faceva parte di un’unità speciale dei Ros dei Carabinieri dedita soprattutto alla cattura dei latitanti, il Crimor, con il grado di capitano, agli ordini del colonnello Mario Mori. Lui e i suoi uomini viaggiavano in borghese su motociclette di grossa cilindrata come i Falchi di Napoli e percorrevano in lungo e in largo i quartieri palermitani per verificare “soffiate”, inseguire piste investigative, fare indagini, perlustrare il territorio alla ricerca di una traccia, di un indizio.
De Caprio si era già conquistato una certa fama nel 1985 nell’ambiente dopo l’arresto a Bagheria del latitante Antonio Gargano e di Vincenzo Puccio, l’assassino del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Nel 1990 aveva lavorato all’inchiesta milanese “Duomo Connection” coordinata dal pm Ilda Boccassini, sulle infiltrazioni mafiose nei cantieri edilizi del Milanese (vennero inquisiti anche dei politici, poi assolti). Tra il 1991 e il 1992 sempre alla guida del Crimor sgomina la banda di uomini d’onore che gestiva una raffineria di droga per conto del clan Fidanzati. Ultimo i suoi uomini li sceglie come fece duemila anni da Scipione l’Africano contro Annibale: prende gli uomini dell’Arma meno considerati, relegati negli uffici, a fare i piantoni o in mansioni di secondo piano. Ognuno di loro ha un soprannome, come Ultimo (che in realtà è il primo): Pirata, Apache, Vichingo, Gelo, Apache, Ronin. C'è anche una donna: Pocahontas. Dà a tutti loro l'ovccasione di farsi valere. E loro si riscatteranno portando a termine l’operazione “Belva”, uno delle azioni più brillanti dell’Arma in campo investigativo e “militare”. Sarà proprio Ultimo a mettere materialmente le manette a Totò Riina e a farlo fotografare sotto la foto del generale Dalla Chiesa.
Un’arresto così eccellente, come nei migliori film, non poteva non avere una coda di polemiche, in un ambiente di veleni come quello di Palermo, la patria del “Corvo”. La sequenza dei fatti che portarono all’arresto è stato varie volte messo in discussione nei processi, anche in relazione ai ritardi nella perquisizione del covo del capo dei capi, 18 giorni dopo, quando i mafiosi avevano fatto sparire ogni traccia e perfino ritinteggiato le pareti. «Non mi fu chiesto di farlo, non potevo dunque farlo», si è sempre difeso Ultimo, che ha anche motivato la scelta col fatto che la perquisizione avrebbe messo sul chi va là altri mafiosi cui stavano dando la caccia. De Caprio (insieme con il colonnello Mori) sono stati assolti dalle accuse, anche da quella che sosteneva che Riina fu consegnato loro da Provenzano. Ma come tutte le assoluzioni, nell’imputato è sempre rimasta in bocca tanta amarezza, sfogata in dichiarazioni poleiche, anche nei riguardi dei magistrati.
Con la sentenza del 20 febbraio 2006 i giudici di Palermo oltre ad assolvere gli imputati «perché il fatto non costituisce reato», hanno voluto sottolineare e ribadire che «il latitante (Riina, ndr) non fu consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base a una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all'intuito investigativo del capitano De Caprio». L’arresto di Riina (che gli uomini di Ultimo via radio chiamavano durante la caccia in codice “Sbirulino”) parte infatti da lontano, da quando nel 1990 il capitano Angelo Jannone, comandante della compagnia dei Carabinieri di Corleone mediante una serie di intercettazioni ambientali nelle abitazioni dei familiari di Riina arrivò a individuare la famiglia Ganci - Spina come quella che ne favoriva la latitanza e passò quelle informazioni a De Caprio nell'agosto del 1992, dopo le stragi di mafia dei Georgofili, di Milano e di Roma. Ultimo ha ripercorso più volte l’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio del 1993 in varie interviste e libri: «Tutto è iniziato con la chiamata del colonnello Mori. Sin da subito avevo una gran voglia di lavorare, soprattutto avevo le idee chiare su come impostare il lavoro. Durante il periodo a Bagheria, mi rimase impressa una frase pronunciata da Riina, in cui diceva di ‘avere nel cuore la famiglia Ganci della Noce’. Pian piano, scoprimmo che la gestione dei pizzi da prendere sugli appalti presi spettava proprio alla famiglia Ganci, di base al quartiere Noce di Palermo. Quella frase di Riina rimase agli atti e noi iniziammo a seguire i componenti della famiglia. Scoprimmo dove abitavano, a Monreale, che avevano delle attività e che non solo gestivano l’appalto la proprio dirigevano i lavori. Ci furono diversi pedinamenti importanti, in cui scoprimmo informazioni preziose sul modus operandi mafioso». Fino a quando non arrivarono le prime risultanze: «A gennaio, un collaboratore di giustizia, Balduccio di Maggio, ci disse che Riina lo tenevano o i Ganci o i Sansone. Si nascondeva in via Bernini, in un’utenza riconducibile alla famiglia Sansone. Il resto della storia è cosa nota: controllando i filmati, Di Maggio identifica la famiglia di Riina, la mattina alle 9 arriva Biondino, tra l’altro killer di tre carabinieri, e preleva Riina. Noi li seguiamo, poi alla rotonda del Motel Agip, io e Vichingo prendiamo Riina». "Sbirulino sale su una gazzella dei carabinieri scortati da Ultimo e Vichingo in motocicletta. È la fine del capo dei capi.
Il capitano Ultimo nei mesi successivi abbandona Palermo per trasferirsi a Milano. Dal 1993 al 1997, De Caprio si è dedicato alla ricerca di altri pericolosi latitanti, fino allo scioglimento del Crimor. Tra le varie attività partecipa al pedinamento e all'arresto nel 1992 di Daniele Barillà, l'imprenditore di Nova Milanese che ottenne, in seguito alla revisione del processo, un risarcimento di quattro milioni di euro per l'ingiusta detenzione durata oltre sette anni. Vittima di uno dei più clamorosi casi di errore giudiziari emersi in Italia, Barillà fu erroneamente considerato dai Carabinieri un trafficante di droga, ma l'equivoco era stato generato da uno sbaglio durante un pedinamento sulla tangenziale e strade limitrofe di Milano. Rimane nel ROS fino al 2000, quando chiede il trasferimento ad altro incarico, in polemica coi vertici, fino a divenire vicecomandante del Nucleo per la tutela per l’ambiente. Gli viene anche tolta la scorta per un breve periodo, nonostante molti pentiti di mafia abbiano dichiarato che esistono vari piani per ucciderlo, per poi vedersela riassegnata. E così siamo arriviao al capitolo della candidatura nel movimento di Cateno De Luca. «Oggi – dice tra gli applausi della folla - dopo 31 anni, tolgo la protezione al mio volto, la mia ultima difesa dalla mafia, perché a viso aperto voglio continuare a servire il popolo italiano con lo stesso coraggio, con la stessa umiltà, con lo stesso amore che ho avuto da carabiniere».