Aveva un nome famosissimo Roberto Mancini, ma era la fama di un altro, colpa di un’omonimia che portava altrove alla zazzera al vento dell’allenatore dell’Inter e poi del Manchester City e poi di nuovo dell’Inter. La beffa di un destino sgarbato.
Il Roberto Mancini, di cui parliamo, invece, non lo conosceva nessuno e capelli non ne aveva più, portati via dalle cure per il linfoma non Hodgkin con cui aveva combattuto per anni, dopo averne combattuto la causa: i rifiuti tossici, che oggi tutti ricollegano alla Terra dei fuochi, e che Roberto Mancini, da poliziotto, aveva scoperto prima degli altri, rendendone conto in una informativa che risale al 1996.
Quelle carte però restarono in un limbo (che fece dire a un Mancini demoralizzato: “Se fosse stata presa in considerazione forse non avremmo avuto Gomorra”), finché il Pm Alessandro Milita della Dda di Napoli, anni dopo, non la trovò. Chiamò Roberto Mancini e chiese la trascrizione delle registrazioni contenute in quell’informativa vecchia di parecchi anni, servivano per portare a giudizio una trentina di imputati per reati che vanno dall’associazione mafiosa al disastro ambientale, processo tuttora in corso davanti alla Corte d’Assise di Napoli.
Roberto Mancini a quell’epoca è poliziotto da un pezzo, entrato all’inizio degli anni Ottanta, passando per vari uffici, tra cui la Criminalpol e la Catturandi, con indagini su camorra infiltrazioni dei clan nel Basso Lazio, tra il 1997 e il 2001 Mancini collabora con la Commissione rifiuti della Camera, fa tra missioni e sopralluoghi in Italia e all’estero, si espone ai rifiuti tossici e alle loro esalazioni, e nel 2002 si ammala di linfoma. Nel 2010 Comitato di verifica del Ministero delle Finanze mette nero su bianco che la sua malattia viene da una “causa di servizio”, l’indennizzo, 5.000 euro, è poca cosa.
La richiesta di risarcimento danni che Mancini avanza alla Camera per “malattia professionale” si scontra con la burocrazia: l'attività svolta non ha determinato un rapporto di lavoro con la Camera. La risposta che arriva nel luglio del 2013 non è quella sperata, gli si dice che nel periodo della Commissione Mancini, pur collaborando con la Camera, ha continuato a fare il poliziotto, inquadrato nell’Ispettorato di Polizia presso la Camera, e che sarebbe toccato alla Polizia informare Mancini dei rischi diversi da quelli “tipici e propri delle sue mansioni professionali” e cioè dalla pallottola o dall’esito nefasto di una colluttazione più prevedibili nella vita quotidiana di un agente di Polizia.
Mancini non si arrende e non si arrendono neppure i suoi amici: nel novembre 2013 Fiore Santimone, amico di lunga data di Roberto Mancini, lancia una petizione su Change.org, la raccolta di firme schizza, il 6 marzo del 2014 Roberta Lombardi, con un’interrogazione parlamentare, porta il caso all’attenzione del Ministero dell’Interno. E in aprile il caso diventa una manifestazione pubblica in piazza Montecitorio. Roberto Mancini muore il 30 aprile 2014, le firme raccolte intanto sono 75.000, i promotori della petizione le consegnano alla Camera, che poco dopo invia al Ministero dell'Interno tutta la documentazione relativa alle indagini di Roberto Mancini sui rifiuti tossici.
La Presidente della Camera dà mandato perché parta l’istruttoria sulla vicenda. Nel settembre 2014 a Roberto Mancini viene riconosciuto lo status di “vittima del dovere” che non solo certifica la connessione tra la malattia e il servizio prestato ma riconosce alla sua famiglia il diritto al sostegno previsto dalla legge. Roberto ha infatti lasciato una moglie Monika e una figlia, Alessia, che oggi ha 15 anni. Come ha scritto Monika nel messaggio di ringraziamento alle persone che hanno messo quelle 75.000 firme non ci sono medaglia d’oro al valor civile né risarcimento che possano restituire l’affetto perduto ma: “Il suo importantissimo lavoro sul traffico di rifiuti tossici è servito a molte cose e adesso questo è ufficialmente riconosciuto. E’ giusto che chi ha dato la propria vita per il bene di tutti, venga almeno omaggiato dalle Istituzioni”.