Il commissario Dario Maltese non è esistito nella realtà, la storia è ambientata negli Anni Settanta a Trapani e girata tra Latina, Trapani e Palermo. Ma è una storia che cita, che allude. Sono gli anni che precedono il Maxiprocesso di Palermo. Prima di quel momento, destinato a scrivere cinque anni dopo per la prima volta l’organizzazione cosa nostra nel codice penale, della mafia si diceva: “Non esiste”.
Dario Maltese vive questo contesto e non per caso porta baffi neri: sono in omaggio a Ninni Cassarà, capo della sezione investigativa della mobile di Palermo, collaboratore strettissimo, al fianco ad altri poliziotti come Giuseppe Montana e Saverio Antiochia, dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Insieme raccolgono le prove che porteranno nel 1986 all’inizio del maxiprocesso, andato a sentenza definitiva nel 1992. Tutti insieme, consapevoli, si ripetono: “Siamo morti che camminano”. Quando il processo comincia: Montana, Antiochia e Cassarà sono già morti, uccisi a distanza di pochi giorni: Montana il 28 luglio del 1985, Cassarà e Antiochia insieme il 6 agosto del 1985. Antiochia era tornato apposta dalle ferie per non lasciare solo Cassarà, consapevole della sua solitudine non solo fisica di uomo nel mirino, in quell’estate di piena guerra di mafia. Li ha uccisi, insieme sotto casa di Cassarà, un commando di 18 persone con 200 (sic) colpi di kalashnikov.
È una guerra che passerà alla storia come la seconda guerra di mafia, scoppiata nel 1978 durata 15 anni di morti per strada, che Letizia Battaglia e il suo compagno e collega Franco Zecchin, fotografi dell’Ora di Palermo documentano un’immagine alla volta. E non per caso nelle sue foto ci sono tutti, da vivi e da morti: Ninni Cassarà, Boris Giuliano, Piersanti Matterella, Giovanni Falcone. Una delle più famose è l'immagine dell'arresto di Leoluca Bagarella in ceppi, la ferocia del suo sguardo braccato. Ci sono gli eroi proprio malgrado e i loro nemici dichiarati in quelle foto e Elisa Ripstein, fotografa straniera accanto a Dario Maltese, è indubbiamente un riferimento esotico alla coraggiosa Letizia che si giocò lustri di vita quotidiana per trovarsi ogni volta sul luogo del delitto. Oggi a 82 anni ripete che la mafia c’è ancora ma è diventato difficile fotografarla, perché non si fa vedere.
Neppure è un caso che il giornalista protagonista della fiction si chiami Mauro Licata, ci sono tanti nomi nascosti in quel nome, omaggio a testimoni vivi e morti.
Mauro Rostagno l’uomo dalle tante vite, attivista, sociologo, fondatore di Saman, giornalista di lotta continua, caduto il 26 settembre 1988 in un agguato che 25 anni dopo una sentenza della Corte d’Assise di Trapani ha chiarito essere di mafia. Il processo di secondo grado è in corso.
Mauro De Mauro, fratello del linguista Tullio, giornalista dell'Ora, rapito da un commando mafioso davanti alla figlia la sera del 16 settembre 1970 mentre stava occupandosi del caso Mattei. E di lì scomparso nel nulla. Tommaso Buscetta, davanti ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, disse che «De Mauro era un cadavere che camminava. Costa Nostra era stata costretta a “perdonare” il giornalista perché la sua morte avrebbe destato troppi sospetti, ma alla prima occasione utile avrebbe pagato anche per quello scoop. La sentenza di morte era stata solo temporaneamente sospesa». Il resto è mistero.
Salvo Licata, scrittore autore di teatro, giornalista dell’Ora, scomparso nel 2000, maestro di impegno civile per molti, autore del Passero Sbirro, di Orazione per Falcone e Borsellino nel giorno di San Rocco oltreché di memorabili cronache dei tempi dell’Ora e Francesco, Ciccio, La Licata, oggi penna della Stampa, figlio dell’Ora anche lui dove si occupò della scomparsa di De Mauro, e poi biografo di Giovanni Falcone.
Mauro Licata non è nessuno di loro, Maltese non è Cassarà, Elisa Ripstein non è Letizia Battaglia, ma nessuna delle connessioni è a caso e la fiction pesca un po’ in tutti senza ritrarre nessuno.