Il lettore praticante, che è abituato a sentire
questa frase ogni volta che il sacerdote
leva l’ostia davanti ai fedeli prima
della Comunione, si chiederà: perché
mai proporre una simile dichiarazione,
pronunciata dal Battista, tra le parole difficili
presenti nei Vangeli? La risposta è
celata proprio nella densità tematica che
è sottesa a una frase apparentemente
chiara, semplice e abituale nella fede e
nella liturgia cristiana. Cerchiamo, allora,
di far passare davanti a noi le tre componenti
che la costituiscono.
Innanzitutto l’agnello di Dio. Sulle labbra
del Battista forse c’è un rimando
all’agnello simbolico caro a quella letteratura
popolare nota come “apocalittica”:
è, allora, l’agnello mite e indifeso che
paradossalmente piega e sconfigge le
belve del male. Anche nell’Apocalisse di
Giovanni si leggerà, infatti, che i seguaci
della Bestia satanica «combatteranno contro
l’Agnello [Cristo], ma l’Agnello li vincerà,
perché è il Signore dei signori e il Re
dei re» (17,14). Il simbolo, però, rimanda
spontaneamente anche all’agnello pasquale:
è ciò che l’evangelista ribadirà
quando ricorderà che al Cristo crocifisso
non vengono infrante le gambe, proprio
come accadeva all’agnello immolato a Pasqua
che non aveva nessun osso spezzato
(Giovanni 19,36). Una terza allusione è,
però, ancor più rilevante: del Servo sofferente
messianico, cantato dal profeta
Isaia, si dice che «era come agnello condotto
al macello» (53,7).
Tra l’altro, in aramaico, la lingua usata
dal Battista, è curioso notare che esiste
un vocabolo, talya’, che significa sia
“servo” sia “agnello”. Con questa interpretazione
che collega l’agnello al Servo
del Signore possiamo spiegare la seconda
locuzione, colui che toglie. Del Servo
messianico, infatti, si diceva che «si era
addossato i nostri dolori... portava il
peccato di molti» (Isaia 53,4.12).
Il verbo
ebraico usato, nasa’, indica sia “portare”
sia “togliere”. I due significati sono
in pratica omogenei: il Messia, e
quindi Cristo, si addossa su di sé il male
dell’umanità per cancellarlo, lo porta
per toglierlo via. E qui affiora indirettamente
un ulteriore aspetto
dell’agnello: esso è il sacrificio perfetto
e vivente che espia il peccato e riconcilia
l’umanità con Dio.
Si intrecciano, così, i tre profili
dell’agnello apocalittico, pasquale e messianico
che abbiamo descritto. Rimane
ora l’ultima locuzione: il peccato del mondo.
La liturgia eucaristica cattolica ha introdotto
il plurale “i peccati” cancellati
dalla vittima sacrificale Cristo. Questa rilettura
ha certamente un rimando neotestamentario,
perché nella Prima Lettera
di Giovanni si legge che Cristo «si manifestò
per togliere i peccati» (3,5). Il singolare
usato dall’evangelista nella frase che
abbiamo esaminato è un riferimento al
peccato radicale del mondo, quello di
non credere nel Figlio di Dio.
«Se foste
ciechi», dirà Gesù ai farisei dopo la guarigione
del cieco nato, «non avreste nessun
peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo!”,
il vostro peccato rimane» (Giovanni
9,41). L’incredulità ostinata è la base dalla
quale si leva e cresce la pianta perversa
dei nostri peccati molteplici.