In alto, Paul Klee, Angelus Novus, 1920.
Colpisce e ci interpella un’affermazione centrale dell’odierna catechesi offerta da papa Francesco nell’udienza generale di oggi. Commentando il salmo 8 egli ha sottolineato: “Il Salmo afferma che siamo fatti poco meno di un Dio, di gloria e di onore siamo coronati (Sal 8,6)”. Siamo abituati a leggere questo testo nella traduzione della vulgata, che recita Minuisti eum paulo minus ab angelis, gloria et honore coronasti eum et constituisti eum super opera manuum tuarum”.
Cioè “Lo hai fatto poco meno degli angeli e di gloria e di onore lo hai coronato”, che traduce così il testo greco dei LXX. Ma se, come fa il vescovo di Roma, citando invece la nuova traduzione della CEI, ci riferiamo all’originale ebraico, leggiamo: “Eppure lo hai fatto poco meno di Elohim”, ossia “poco meno di Dio”. Ed Elohim è il Dio dei patriarchi, ossia il Dio di Abramo. Non si tratta quindi di un dio qualsiasi, ma del Dio vivente che stipula la sua alleanza con l’uomo, considerato suo partner privilegiato, tanto che il Verbo non si è fatto “angelo”, ma “uomo”. Del resto la filigrana di Blaise Pascal, è presente nel discorso del Papa, che ha detto: “La grandezza dell’uomo è infinitesimale se rapportata alle dimensioni dell’universo”. Insomma, siamo una “corda tesa” fra “la bestia e l’angelo” e “chi si vuol fare angelo finisce col diventare bestia”.
E gli angeli, che c’entrano in tutto ciò? Perché la versione che una tradizione ci consegna li nomina? Dovremmo per questo sbarazzarcene allegramente? Riflettendo su questa domanda, che qualcuno mi ha voluto rivolgere, penso che ogni puro monoteismo come quello ebraico, quello islamico e il nostro, ha comunque bisogno di mediazioni. Il rapporto con il “totalmente Altro”, di cui Max Horkheimer ha così ben descritto la “nostalgia”, non è mai diretto e immediato, ossia privo di mediazioni concrete e personali. E la presenza di tali mediazioni concrete accomuna le diverse appartenenze religiose monoteistiche, come si mostra nel ponderoso volume, curato da Giorgio Agamben e Emanuele Coccia, intitolato Angeli. Ebraismo. Cristianesimo. Islam, edito nel 2009 da Neri Pozza (Vicenza).
Una vera miniera di testi e informazioni, che mi riportano all’attenzione rivolta verso le figure angeliche dalla filosofia contemporanea a partire dall’Angelus novus, il quadro di Paul Klee, da cui prende le mosse Walter Benjiamin, nel suo scritto che porta lo stesso titolo: “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”. Il momento drammatico che stiamo attraversando può essere vissuto e interpretato in questa prospettiva.
Gershom Scholem aveva evocato il quadro di Klee, un pensatore come Massimo Cacciari lo richiama nel suo L’angelo necessario, senza dimenticare l’angelologia presente in Essere finito, Essere eterno di Edith Stein. Ma se il Bene ha bisogno di mediazioni, pensiamo al demiurgo platonico, anche il male se ne avvale nella presenza di Satana e dei demòni, che tanto interesse riscuotono nel nostro immaginario collettivo. Si tratta della lotta cosmica fra il bene e il male e le loro rispettive figure. Ma, se, come il papa sottolinea l’uomo è “poco meno di Elohim” (e non degli angeli), il luogo di questa lotta sono il suo cuore, la sua mente e il suo corpo. Ed ecco perché invochiamo gli angeli e pratichiamo gli esorcismi. Non si tratta di oscurantismo “medievale”, ma dell’impegno, cui ciascuno è chiamato, alla lotta contro la bestia che lo possiede e che sembra invincibile. Recitare la preghiera all’angelo custode, non sarà quindi una sentimentale pratica devozionistica, se accompagnata dalla consapevolezza dei nostri limiti e del fatto che, proprio perché siamo poco meno di Elohim, ossia di Dio, non per questo dobbiamo inorgoglirci, in quanto la nostra esistenza ha bisogno della loro protezione e del loro accompagnamento.