Questa mattina (8 febbraio 2021) papa Francesco ha finalmente ricevuto il corpo diplomatico, accreditato presso la Santa Sede, dopo l’evento previsto per il 25 gennaio scorso e rinviato a causa della sciatalgia. Il papa, che è sembrato in ottima forma, ha tenuto un discorso di altissimo profilo culturale, politico e, oserei dire, teo-logico. Qui offro qualche sottolineatura.
Molte persone semplici spesso mi pongono la domanda: ma c’è proprio bisogno che intorno alla persona del vescovo di Roma e del pastore della chiesa universale vi sia tutto questo apparato burocratico, diplomatico, statale? La risposta affermativa si nutre del fatto che è in gioco la libertà del successore di Pietro, che, solo in quanto sovrano, magari anche solo di una stanza di pochi metri quadri, non può soggiacere alle influenze di nessuno dei poteri mondani. E quello che accade a livello pontificio, riguarda anche i territori. I vescovi delle diverse realtà nazionali e locali sono comunque “sudditi” o, se si vuole, “cittadini” dentro un sistema di potere che è quello dello Stato cui appartengono. I nunzi apostolici, che sono gli ambasciatori della Santa Sede nel mondo, rendono presente e percepibile questa libertà e possono, come sono, punto di riferimento dei vescovi in ogni nazione del villaggio globale. E, siccome ha dei nunzi-ambasciatori, la Sede apostolica accredita i rappresentanti degli Stati che ne riconoscono la legittimità e a loro il papa oggi si è rivolto.
E si è espresso con un discorso di altissimo respiro geopolitico, che qui non ho la pretesa di riassumere, disegnando il quadro della situazione del mondo a partire dalla drammatica crisi pandemica che ci ha invaso e mostrandone gli aspetti fondamentali, ma al tempo stesso indicando le regioni del globo col più alto profilo di criticità. Insomma, un discorso ideale e al tempo stesso concreto. La consapevolezza che lo pervade è che il virus non ha creato le crisi, ma le ha acuite e rivelate. In questo senso può essere una opportunità, perché ciascuno possa fare i conti con sé stesso e col proprio contesto.
Mi soffermo su alcuni passaggi, il primo dei quali riguarda la crisi della politica e della democrazia. Come ha sottolineato papa Francesco non si tratta solo dell’assenza di partecipazione democratica in regimi notoriamente totalitari, ma del fatto che tale crisi la pandemia l’ha rilevata proprio in luoghi, in cui la forma democratica dello Stato sembrava ormai indiscussa. La democrazia è, come direbbe il titolo di un noto film del 2012, diretto da Yaron Zilberman e interpretato da Philip Seymour Hoffman, Christopher Walken, Catherine Keener e Mark Ivanir, “una fragile armonia”. Pertanto, non la si può ritenere acquisita una volta per tutte, ma bisogna custodirla e preservarla dagli attacchi di personaggi e gruppi tendenti a prevaricare piuttosto che a servire il popolo. Il virus può renderci consapevoli di questo compito e appella le nostre coscienze, perché, pur nelle restrizioni delle sacrosante libertà individuali, venga salvaguardato il bene di tutti.
La crisi più profonda, che la pandemia ha fatto esplodere, è quella “antropologica”. La Chiesa ha sempre denunciato ogni tentativo di disumanizzare la persona e la società, penso per esempio alla Redemptor hominis di san Giovanni Paolo II. Non si trattava del falso allarme di chi gridava “al lupo, al lupo!”, ma di una reale e decisiva emergenza. Gesù di Nazareth, il Cristo, che rivela l’uomo a se stesso, è sempre e comunque il centro di orientamento della comunità credente e, allorché si minaccia la persona e la sua dignità, si esclude la persona di Gesù dalla vita dei singoli e delle nazioni. Si tratta di una sfida culturale, nel senso ampio del termine, che ci chiede di riflettere e discutere, camminare e progettare intorno al tema della persona, “fra natura e cultura”. Sul primo rapporto si è soffermato papa Francesco, richiamando la Laudato si, e di fatto denunciando la frattura dell’alleanza fra uomo e ambiente, per cui siamo chiamati ad occuparci delle ferite di un’umanità malata e infetta nel contesto di una natura malata e infetta.
La ferita “culturale” è stata denunciata, descritta e affrontata nella frattura dell’alleanza fra uomo e donna (papa Francesco non ha mancato di stigmatizzare i femminicidi), ma soprattutto nella “catastrofe educativa”, ovvero nella profonda crisi del rapporto/alleanza fra le generazioni, che il virus ha rivelato in tutta la sua propulsione devastatrice. Notare il cambio di sostantivo da “crisi” a “catastrofe”. Qui il discorso si è fatto estremamente concreto e, direi, di cogente attualità, nella disanima della cosiddetta didattica a distanza e delle sue criticità: «l’aumento della didattica a distanza ha comportato pure una maggiore dipendenza dei bambini e degli adolescenti da internet e in genere da forme di comunicazione virtuali, rendendoli peraltro più vulnerabili e sovraesposti alle attività criminali online. Assistiamo a una sorta di “catastrofe educativa”, davanti alla quale non si può rimanere inerti, per il bene delle future generazioni e dell’intera società. “Oggi c’è bisogno di una rinnovata stagione di impegno educativo, che coinvolga tutte le componenti della società”, poiché l’educazione è «il naturale antidoto alla cultura individualistica, che a volte degenera in vero e proprio culto dell'io e nel primato dell’indifferenza. Il nostro futuro non può essere la divisione, l’impoverimento delle facoltà di pensiero e d’immaginazione, di ascolto, di dialogo e di mutua comprensione». Un filosofo grande e discusso del Novecento ripeteva che l’elemento più preoccupante della nostra epoca sta nel fatto che “non ancora pensiamo”. In questo “non ancora”, si situa l’azione di chi è chiamato ad educare le giovani generazioni.
Infine, vorrei richiamare due luoghi “poetici”, incastonati nel discorso, il primo dei quali è stata la citazione dei versi di John Donne, che i più conoscono perché inserito come epigrafe al romanzo di Ernest Hemingway, Per chi suona la campana: “ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità. Allora non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te!”. Il secondo il richiamo a Dante Alighieri e al fine per il quale, secondo una famosa lettera a Cangrande della Scala, avrebbe messo mano al suo capolavoro: «Allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità». E tutti comprendiamo che non si tratta tanto e solo della miseria materiale, ma della mancanza di senso dell’esistenza, che ci attanaglia e costringe a scelte inautentiche, dalle quali si generano crisi e catastrofi come quelle che questo virus rivela in tutta la loro tragicità.