Descolarizzazione, violenza,
abbandono e "callejizacion", cioè la scelta di attribuire alle regole
della strada più autorità di quelle dello Stato facendone, di fatto, il luogo
degli affetti più intimi e sinceri: sono questi alcuni dei problemi più urgenti
che i bambini ecuadoriani tra gli 8 e i 18 anni sono chiamati ad affrontare,
spesso da soli e di certo mal consigliati. Per loro la strada non è soltanto e
necessariamente la fuga da un disagio ma rappresenta davvero la prospettiva di
una vita migliore in cui possono decidere autonomamente e senza intrusioni. Ma
come è possibile a quell'età? Le ragioni sono diverse ma per sviscerarle a
fondo servono progetti seri, investimenti economici e umani adeguati e
l'impegno di operatori specializzati e volontari appassionati. È il caso, appunto, di Engim internazionale, organizzazione non governativa nata nel 1977 che ha raccolto e
fatto propria l'eredità educativa di san Leonardo Murialdo: come nei vicoli di
Quito, la capitale dell'Ecuador, la città dell'equatore per eccellenza a 2.800
metri sul livello del mare, dove ha attivato un complesso di servizi educativi
di accoglienza e di reinserimento sociale e familiare a favore dei ragazzi di
strada. M.B. è una ragazza che ha scelto Engim per vedere il mondo
"fuori". «Ogni giorno che attraverso Quito in autobus, passando
attraverso i barrios (quartieri) o in taxi durante la notte per arrivare a
Gringolandia, capisco cosa intendeva il libertardor Simon Bolivar quando la
definiva "luz de América". La parte coloniale è densa di cultura:
viva e pericolosa. La parte a nord è luccicante, occidentalizzata per quanto
possibile da queste parti: ci sono locali, discoteche, spacciatori lungo le
strade e gringos. Poi c'è il sud, il mio sud, quello della Magdalena e di
Fundeporte: qui il contesto si capovolge e gli autobus con le tendine di
velluto rosso corrono per strade a due corsie popolate da venditori ambulanti,
cani randagi, bambini e capre. La puzza di smog si mescola al profumo di carne
alla brace, banas asadas ed empanadas».
Fundeporte è la sede operativa
del progetto "Su cambio por el cambio", il progetto per il quale M.
presta servizio civile: un'enorme distesa verde dotata di campi da calcio,
pallavolo e basket, piste da pattinaggio e atletica. E ancora campi da tennis,
la palestra per arti marziali, la biblioteca e le aule per studiare. Il tutto
"scandito" da serre, campi coltivati e i reparti di medicina,
odontoiatria e psicologia. Un'isola felice e complessa affidata alle
congregazioni dei padri giuseppini del Murialdo e a las hermanas angeles de la
Guarda realizzata anche grazie alle donazioni di sponsor locali e famiglie
italiane che sostengono le attività di questo maxi centro che offre una
stroardinaria opportunità di riscatto agli utenti che altrimenti non si
potrebbero permettere servizi di questo livello. Si tratta di un centro di
educazione integrale che occupa giovani e adolescenti dagli otto ai dieci anni,
dalle 8 del mattino alle 6 di sera proponendo lo sport come strumento di
educazione e formazione personale. Mens sana in corpore sano. Al pomeriggio le
attività "ludiche" lasciano spazio alla scuola per colmare, nel
rispetto della nuova riforma dell'educazione ecuadoriana, le lacune di
un'utenza che ha esigenze specifiche. Tutti i giovani a cui si rivolge il progetto,
infatti, soffrono carenze in ogni aspetto della loro formazione umana e
scolastica dovute a uno "storico" personale che parla di lavoro
minorile, violenza, abusi, disfunzioni familiari, dipendenze e povertà.
Una dimensione complicata e
articolata in cui, oltre a queste difficoltà, va registrata la scarsa
propensione alla convivenza pacifica di studenti che provengono
da contesti socio-culturali spesso molto distanti tra loro anche per le
peculiarità delle zone geografiche di appartenenza: crescere sulla sierra è
differente dalla costa o dalle terre d'oriente. «Questi ragazzi trovano qui una
famiglia, regole, due pasti al giorno, imparano una professione a scelta tra
gli indirizzi di cucina, meccanica, falegnameria, agraria e sartoria. Dopo tre
anni di studio nei laboratori, il titolo di "practico" li mette nelle
condizioni di essere veramente padroni del proprio destino con tutti gli
strumenti per aprire micro-imprese i cui profitti vengono reinvestiti nel
progetto stesso». Ma non solo: qui i ragazzi possono curarsi gratuitamente. «Io
trascorro i miei pomeriggi nel dipartimento di psicologia, subito dopo
l'allenamento di atletica e le lezioni di inglese. Adoro il mio lavoro: oltre
ad accompagnare percorsi di terapia individuale e familiare, gruppi di sostegno
e ragazzi con disturbi dell'apprendimento, ho avuto l'occasione di seguire in
prima persona seminari per genitori e ragazzi sui temi della violenza e
dell'aggressività e di condurre un laboratorio di "fototerapia e
photovoice", una tecnica di denuncia sociale promossa tramite la
fotografia». Se potesse, M. farebbe ancora di più: di certo non le mancano le
energie. Se solo i giorni avessero qualche ora in più...
«Avete
presente l’ombelico del mondo? Sì, quello di cui parlava Jovanotti, il luogo in
cui si incontrano facce di una bellezza disarmante, pelle di ebano e occhi
smeraldo. Il luogo in cui si risale dentro se stessi per imparare a respirare,
e dove l’amore diventa azione. Dove non esistono regole, ma solo eccezioni.
L’ombelico del mondo insomma. Ecco, benvenuti a Fundeporte! 240 giorni in attivo.
320 nuovi nomi imparati. 9 (uno più uno meno) coinquilini. 5 giorni lavorativi
settimanali. 6 pianti. 1
operazione. Bisogni: zero. Desideri: infiniti. In sintesi: l’esperienza più
bella della mia vita!
Sono partita otto mesi orsono con una valigia di sogni
e il cuore pieno di tristezza per tutto quello che stavo lasciando in Italia.
La mia cagnolina, la mia famiglia, i miei amici, il mio lavoro. Un anno in Sud
America. Sono partita senza aspettative, con l’unico proposito di tenere il più
possibile occhi, orecchie e cuore aperti. E non è stato sempre facile. Perché,
inevitabilmente, questo ha comportato il mettermi in gioco: rivalutare tanti
dei miei comportamenti, tante delle mie convinzioni, tante delle mie sicurezze.
Ho, da sempre, fatto molte domande, malata di curiosità, ma mai come ora ho
ascoltato (temo). Catapultarsi
in un mondo così diverso dal nostro disorienta, ribalta i valori. Si impara ad
ascoltare i gesti, a vedere i silenzi. Perché senza capire, e rispettare, non
puoi essere accettato. E, di conseguenza, non puoi guadagnare quella fiducia
che è l’unica che può condurre al cambiamento (di entrambe le parti in causa). Quindi
ho continuato a chiedermi perché gli ecuatoriani parlano (e pensano) così tanto
all’amore, perché è così difficile per loro organizzarsi, perché mangiano
banane fritte o zuppa di cipolle per colazione. Mi sono chiesta perché alzano
così facilmente le mani, perché faticano a dare un nome ai loro sentimenti. Perché
esistono la violenza domestica, la violenza sessuale, il lavoro minorile, la
vita in strada, i tradimenti, la dipendenza, l’autolesionismo. Sapete cos’ho
imparato?
Che un
sorriso e un complimento vincono sempre su una critica.
Che gli
abbracci sono la migliore medicina.
Che se
mangi fritto alla mattina poi non ti viene fame fino alle tre del pomeriggio.
Che se
si cresce in una famiglia in cui si ruba, ci si alcolizza e ci si droga, a 12
anni si ritiene normale fare questo genere di cose.
Che se
se sei sempre stato solo non puoi capire cosa sia una famiglia.
Che
tante persone che collaborano per un risultato, possono produrre un cambiamento
reale e tangibile.
Che ci
sono tante forme di amare.
Che ci
sono tante forme di chiedere scusa.
Che ci
sono tante forme di chiedere aiuto.
Che si
deve predicare, innanzitutto, con l’esempio.
Che
l’impegno produce risultati.
Che
l’altura rende difficile respirare, correre e produce gas nella pancia.
Che
anche mangiare costantemente riso, produce gas nella pancia.
Che a
volte le distanze sembrano annullarsi. Altre, invece, paiono incolmabili.
Che la
condivisione rende qualsiasi momento più speciale.
Che,
però, anche la solitudine è necessaria.
Che
senza pazienza non si va da nessuna parte.
Che
esistono infinite tonalità di grigio.
Che la
fotografia, il gioco e il movimento sono ottimi strumenti di comunicazione.
Che la
semplicità è un dono, ma anche una conquista.
Che
bisogna imparare la serenità di accettare le cose che non si possono cambiare,
il coraggio di cambiare quelle che possono e la saggezza di discernere la
differenza.
Che non
importa quanto si sia sofferto, mai sarà impossibile essere felici.
Che
aprire (o riaprire) il cuore è la prova più difficile che la vita ci pone
davanti ogni giorno.
Per
tutto questo ringrazio i ragazzi di “Su cambio por el cambio”, uno per uno,
sono loro a rendere questa esperienza (e la mia vita di ora) tanto ricca.
Ringrazio le mie compagne di avventura, il personale del progetto, tutti quelli
che mi hanno permesso di essere qui.
E ringrazio
quelli che, leggendo queste righe, hanno pensato che (forse) vale la pena
mettersi “patas arriba”, ossia gambe all’aria, andando oltre le convenzioni e gli stereotipi.
La vita, e il futuro, sono tutti da scrivere, tanto vale scriverli bene.
MuoviAm(iam)oci.