Il ventennio fascista è un periodo storico che fa da sfondo a molti film e fiction, ma è forse la prima volta che viene ricostruito il giorno cruciale per il futuro dell’Italia: il 25 luglio 1943, quando durante una riunione del Gran consiglio dei ministri fu decisa la deposizione di Benito Mussolini. Artefice della manovra fu Dino Grandi, presidente della Camera, che operò in accordo con il re Vittorio Emanuele III allo scopo di mettere fine a una guerra che stava devastando l’Italia. La lunga notte - La caduta del Duce, per la regia di Giacomo Campiotti, andata in onda per tre serate su Rai 1 il 29, 30 e 31 gennaio e ora su Rai Play, racconta che cosa successe nelle tre settimane precedenti a quel giorno cruciale, seguendo le vicende di Dino Grandi (Alessio Boni) che si intrecciano con quelle di Mussolini, della casa regnante e di Galeazzo Ciano (che votò anch’egli contro il duce e successivamente pagò con la vita questo “affronto”) e della moglie Edda Mussolini. Nei panni di Edda Ciano Lucrezia Guidone, una raffinata attrice di teatro che abbiamo imparato a conoscere anche per i tanti ruoli al cinema e in televisione.
Conosceva già questo episodio della storia e la figura di Edda Ciano?
«Ne avevo delle sommarie nozioni, ma ho approfondito questa figura così drammatica leggendo biografie e vedendo alcune interviste che ci sono in Rete. Non sono stata scelta per la somiglianza fisica con Edda, ma per fare un lavoro sulla sua figura, il tipo di energia che aveva: una donna in apparenza forte, che fumava, giocava a poker, aveva un rapporto stretto con il padre Benito, che ammirava ma di cui era in un certo senso gelosa a causa del suo legame con Claretta Petacci. E che era legata in modo passionale al marito».
Un ruolo quasi da tragedia greca il suo…
«Edda ha vissuto il dramma di molte donne che devono passare dall’essere figlie all’essere compagne. Lei ha sempre cercato l’approvazione del padre, il più ingombrante dei padri, e si ritrovò in bilico tra due amori quando il marito di fatto rinnegò Mussolini votando contro di lui al Gran consiglio, e lei, donna in apparenza controllata, esplose di rabbia quando scoprì quello che il marito aveva fatto, ma alla fine restò al suo fianco».
Non crede che spettacolarizzare troppo il fascismo lo banalizzi?
«Quel periodo storico contiene tutti gli elementi drammatici delle grandi tragedie, perché permette di mettere in scena il Male. È stato un periodo nero della nostra storia, e non finiremo mai di farci i
conti».
Lei che rapporto ha avuto con suo padre?
«Dopo un’adolescenza un po’ burrascosa, in cui ho vissuto dei conflitti con mio padre, crescendo ho riscoperto l’importanza della figura paterna come riferimento, come mie radici. Mio padre mi ha sostenuto nella mia scelta di fare l’attrice, sia incoraggiandomi sia mantenendomi agli studi, anche quando ho deciso, dopo l’Accademia Silvio D’Amico, di andare per tre anni a studiare il metodo Strasberg a New York. Ora che la mia carriera è ben avviata sembra tutto facile, ma allora era un salto nel vuoto».
Lei è nata come attrice di teatro, ma la grande popolarità l’ha ottenuta con il ruolo della direttrice del carcere minorile nella terza e quarta stagione di Mare fuori.
«In realtà avevo già recitato in altre serie tv, ma nessuna ha avuto l’impatto di Mare fuori e mi ha permesso di raggiungere anche il pubblico dei più giovani. Quando mi trovo a Napoli i ragazzini mi salutano come se davvero fossi la direttrice, mi chiamano Sofia, mi dicono di fare la brava; la prendo come una manifestazione d’affetto».
Lei è abruzzese, e non è un caso che abbia debuttato alla regia teatrale nello spettacolo L’arminuta tratto dal romanzo della sua conterranea Donatella Di Pietrantonio.
«È stato il Teatro Stabile d’Abruzzo che mi ha chiesto di mettermi alla prova come regista su questo meraviglioso romanzo prima ancora che diventasse un film. Ed è stato molto emozionante quando l’autrice e venuta ad assistere alla prima».